domenica 14 agosto 2016

IL CALIFFATO DEI NEBRODI - Giuseppe Salpietro

IL CALIFFATO DEI NEBRODI
Giuseppe Salpietro
Suscitò una malcelata invidiuzza in buona parte dei maschi italiani, la notizia diffusasi negli anni Settanta del secolo scorso, che in località Cuccubello del Comune di Sant’Agata di Militello, un califfo che portava il nome non proprio arabeggiante di Pippineddu convivesse sotto lo stesso tetto con un piccolo esercito di femmine.
Uscendo dall’attuale svincolo autostradale dell’importante cittadina tirrenica posta quasi a metà strada tra Messina e Palermo, imboccata la bretella in pendenza verso il mare, quasi a ridosso della Strada Statale 113 un cartello indica ancora oggi la località dove decenni addietro si riversarono per verificare la veridicità della notizia, decine di inviati speciali di tutte le testate giornalistiche e di buona parte delle televisioni europee, pronti a carpire ogni dettaglio, ogni segreto che potesse trapelare sulla vicenda del califfo Pippineddu, indagando financo sui possibili aiutini utilizzati da costui per superare brillantemente ogni prova.
Aveva trentatre anni all’epoca dei fatti il “sultano”, all’anagrafe Giuseppe Scaffidi Fonte, sposato e già padre di quattro figli.
Figlio di contadini, non aveva un mestiere stabile, anche se aveva fatto all’occorrenza di tutto: il contadino, il venditore ambulante di ogni merce, lo scaricatore, il meccanico, il manovale e, nel tempo rimasto a disposizione, oltre a curare le incombenze del suo vasto e complicato harem, con la sua moto-Ape andava anche in giro a raccogliere scarti ferrosi e roba vecchia. Non per infierire sul personaggio nostrano, ma non solo non era ricco, ma non era neanche un adone* Pippineddu, anzi, appariva basso e quasi tarchiato. Alla presenza ordinaria, quasi scarsa, non veniva in soccorso neanche la loquela fluida o forbita, e meno che meno le doti culturali, tant’è che tra gli invidiosissimi compaesani circolava la domanda di rito “ma chi ci vistiru a chistu ‘sti fimmini?”
L’arcano non fu mai svelato, ma resta certo che un numero esagerato di donne, quasi tutte braccianti agricole dei paesi del circondario, si assiepavano nei pochi ambienti del modesto tugurio, aspettando pazientemente che il califfo – così fu definito dalla stampa nazionale -, prima o poi, le scegliesse per concedere loro le sue amorevoli attenzioni. Solo la moglie, Concetta Cuffari, non faceva parte dell’harem, pur senza mai divorziare, aveva già lasciato il marito da tempo e si era trasferita successivamente in America con i figli.
Neanche il problema del mantenimento lo impensieriva più di tanto facendogli venire meno l’inesauribile appetito, poiché queste, come se fosse una comunità hippy diffusa tra i figli dei fiori sul finire degli anni Sessanta, avevano trovato lavoro nella località tirrenica perlopiù come domestiche, provvedendo quindi a sostenersi autonomamente e contribuendo, nel contempo, alle certo rilevanti necessità del folto gruppo
Un tarlo al tempo arrovellava tutti: ma possibile che non ci fu mai una sciarra, un conflitto, una tiratina di capiddi ?
A sentire le compartecipi, sarà stato bravo Peppino, o pazienti loro, non esisteva alcuna conflittualità interna al gruppo fin quando un giorno dall’evoluta città tedesca di Colonia, considerata capitale culturale, economica e storica della Renania – quindi non da Valguarnera Caropepe – si unì alla squadra una donna dalle fattezze teutoniche, la bella Angelika di appena 22 anni, già madre di due bambini che aveva lasciato ai genitori in Germania per rincorrere l’amore siculo.
Naturalmente, è facile intuire che contemporaneamente all’imprevisto arrivo di Angelika la quale, oltre che bionda, era alta in modo smisurato e sulla sua carnagione cerulea spiccavano due splendidi occhi blu, non tardarono ad arrivare le prime liti furibonde.
 Quante erano le compartecipi consenzienti nessuno è mai riuscito esattamente a saperlo. In quelle minuscole stanze, chiaramente, non c’era posto per tutte e molte andavano e venivano.
Risultò ancora più sconcertante che una di queste “amiche” fosse stata ceduta al padre di Pippineddu in cambio di una modesta Ape Piaggio, e fu proprio quell’incredibile ed indecente mercimonio a metterlo nei guai con la giustizia: il figlio chiedeva, pena la decadenza dell’accordo, oltre alla moto-Ape anche un’integrazione economica, un equo ristoro, una sorta d’indennizzo per la grave perdita, ed il padre non intese acconsentire al vile ricatto. Litigarono furiosamente ed apertamente sotto gli occhi di tutti i paesani, mettendo in piazza l’indicibile vicenda che costò a Pippineddu una denunzia dall’uomo che lo aveva messo al mondo.
Scoperto quanto già notorio e ipocritamente taciuto o mormorato in tutto il territorio dei Nebrodi, Pippineddu finì in galera: truffa, plagio, sfruttamento e induzione alla prostituzione, violenza privata ed alterazione dello stato civile, furono i reati che gli vennero contestati con ordine di cattura.
Quando il caso assurse agli onori della cronaca e Sant’Agata di Militello apparve come la Svezia del retrogrado Sud, i magistrati parlarono di uno "squallido esercizio della libertà sessuale in un ambiente di miseria, di abbrutimento fisico e morale". 
Quel vecchio cascinale era senza ombra di dubbio un ambiente di miseria e di abbrutimento, come accerteranno i giudici, fra le concubine c’erano infatti anche una madre e la figlia, una zia e la nipote e due sorelle. Ma nessuno poté dimostrare che Pippineddu sfruttasse per soldi le sue donne, vendendo il loro corpo a questo e quello o addirittura cedendo i loro bambini che erano anche suoi, in cambio di una lauta ricompensa.
Nei tre gradi di giudizio il processo durò complessivamente sei anni, ed alla fine si concluse lasciandolo pressoché indenne il califfo con una assoluzione quasi totale. Caddero, infatti, una dopo l’altra, le accuse che gli aveva mosso il suo anziano genitore e fu condannato soltanto ad un paio di mesi per i reati di violenza privata e alterazione dello stato civile.
Negli anni successivi, Pippineddu riuscì poi ad avere un lavoro fisso presso il Comune come operatore ecologico. I suoi figli, ufficialmente accertati e censiti erano trentasei, ventisette dei quali portano ancora il suo duplice cognome, Scaffidi Fonte.
Immaginate quante volte il povero Pippineddu dovette varcare la soglia del reparto di ostetricia del locale Ospedale di Sant’Agata di Militello considerato che tre, quattro, erano gravide contemporaneamente. Poteva farci le tende se non avesse avuto altri impegni domestici.
Trasferitosi in un appartamento dell’Istituto Autonomo Case Popolari, sempre a Sant’Agata di Militello, pare abbia fatto vita più morigerata – quasi casa e chiesa – unito in un rapporto più stabile solo con la figlia e i suoi cinque figli, dell’ex concubina più anziana.
Ufficialmente quindi, interruppe le frequentazioni frenetiche ma piacevolmente estenuanti, che avevano caratterizzato la sua giovinezza.
Non tollerando più però, le continue ed ingiustificate scenate di gelosia di quest’ultima, anche questa relazione s’interruppe bruscamente, preferendo egli a quel punto andare a vivere con una quarantenne, madre di due ragazzi già grandi. Figli suoi, naturalmente.
Che fine fece l’angelica Angelika?
Tempo prima, era arrivata sulla costa tirrenica in vacanza con un siciliano locale padre dei suoi bambini. Poi, finita la vacanza, lui era ritornato in Germania con i piccoli e Angelika era rimasta in Sicilia mettendo scompiglio tra le amiche del califfo nostrano, ammaliata dalle sue irresistibili virtù amatorie.
Durante il periodo di detenzione di Pippineddu, Angelika così com’era arrivata, se ne tornò in Germania, ma in compagnia. Lasciò l’ingrata Sant’Agata di Militello senza avvertire nessuno, certa che solo lui Pippineddu l’avrebbe rimpianta, portandosi al seguito però il figlio della compagna più anziana, fratello minore della diciottenne che aveva già dato a Pippineddu due figli e poi altri tre. Il ragazzo aveva compiuto da poco 16 anni, sei meno di Angelika.

La conta (quella ufficiale naturalmente) dei figli del califfo ruspante e nostrano nebroideo si è fermata definitivamente a trentasei, ma resterà l’uomo che con le sue incredibili gesta d’alcova ha mobilitato, più di ogni altro, nel 1979, i giornali e le televisioni di tutto il mondo. 

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