CURIOSITÀ SULLA PESCA DEL PESCE SPADA
Sebastiano Plutino
Il
Pesce spada appartiene alla famiglia degli Xiphiidae, Genere Xiphias, della quale
rappresenta l’unica specie Xiphias Glaudius. Il Pesce
spada è diffuso nelle zone tropicali, subtropicali e temperate. L’aspetto è
caratteristico: corpo agile e muscoloso, privo di squame, di pinne ventrali e
di denti, lungo fino a 4,5 metri e dal peso che raggiunge anche 3 quintali; il
colore è grigio scuro sul dorso e argento nella parte ventrale; ha pinne dure e
agili indispensabili per la sua vita di pesce predatore e migratore, fatta di
velocità e potenza, di carattere molto combattente in senso assoluto. Ha una
peculiarità rappresentata dall’eccessivo sviluppo della mascel-la superiore,
che si prolunga in un rostro
tagliente e acuminato che utilizza sia per la cattura delle prede, sia per
difendersi dagli eventuali attacchi dell’uomo e dello squalo.
Riguardo alla sua combattività essa è documentata fin
dall’antichità da notizie di attacchi alle imbarcazioni.
La sua dieta è composta
preferibilmente da seppie, calamari, tonni, barracuda, pesci volanti, pesce azzurro e molluschi cefalopodi. Il pesce spada è
annoverato tra gli animali a sangue caldo in quanto, cosa rara per i pesci,
riesce a mantenere costante la temperatura interna, è stato dimostrato,
infatti, che la sua temperatura interna è mediamente di 10-15 °C superiore
all'acqua del mare in cui nuota. Ha carne delicata, rosea e di alto potere
nutritivo tanto da farlo ritenere da Ateneo e da Archistrato «cibo divino».
La pesca del pesce spada o meglio la “caccia” al
pesce spada, è molto caratteristica. La sua storia è mille-naria; le prime testimonianze risalgono
all’età del bronzo e l’utilizzazione dell’arpione per la cattura è citata già
nel II secolo a.C. da Polibio, quindi da Plinio il Vecchio nel I secolo d.C.
per arrivare al poeta greco Oppiano nel III secolo d.C., senza dimenticare
Omero che ne parla nel canto XII Odissea.
Nello
Stretto di Messina, durante le migrazioni primaverili, il pesce spada percorre
il tratto di costa calabrese tra Scilla, Bagnara e Palmi per poi invertire la
rotta in estate costeggiando il lato messinese nel tratto di mare tra il
torrente Annunziata, Pace, Sant’Agata e Torre Faro. La caccia con l’arpione è
possibile perchè il pesce spada, amante delle profondità abissali, a fine
aprile è solito comparire in acque relativamente basse per accoppiarsi e, cosa
ancor più strana, da maggio ad agosto è impacciato nel nuoto, si distrae
giocherellando da solo o con la propria compagna senza badare ai pericoli. Così
facendo, una volta avvistato, difficilmente sfugge alla cattura. Il rapporto
d’amore e di fedeltà alla compagna gli è valso, nello stretto, l’appellativo di pesce cavaliere, oltre che per
l’aspetto nobile conferito dalla lunga spada anche per la fierezza e il
coraggio che dimostra nella lotta con l’uomo prima di cadere vittima
dell’arpione. Fino al 1960 o poco più,
la caccia veniva praticata con le stesse modalità dell’epoca greca ed ancora
oggi molti dei termini dialettali usati dai pescatori sono, inequivocabilmente,
corruzioni di cor-rispondenti termini greci usati in quell’epoca. Durante
la dominazione araba le tecniche di cattura furono affinate: la caccia e la
cattura avvenivano con un rituale ben preciso basato sulla prontezza dei
pescatori che utilizzavano, incastrato su una lancia d’elce lunga oltre quattro
metri, un arpione ‘u ferru, in ferro
temprato, di circa 25 centimetri e provvisto di quattro alette, con funzione di
ritenuta, impedendo all’arpione di sfilarsi.
Le barche utilizzate, dette luntri o schifi,
venivano governate e manovrate da cinque rematori. Le facevano procedere con la poppa,
sulla quale c’era ‘u lanzaturi, per meglio
equilibrare il movimento della barca e imprimerle una maggiore velocità. Due
dei quattro lunghissimi remi, quelli posti più verso poppa, poggiavano su
scalmi ricurvi sporgenti circa un metro dai bordi della barca. Il mezziere, rematore centrale, a
differenza degli altri impugnava i due remi insieme; a volte erano due i marinai seduti sul banco centrale a manovrare i due remi più
lunghi del luntro, fissati all'estremità di un'asse, detta croce, situata ai piedi del piccolo albero, alto circa 3
metri detto farere, dalla cima del quale il falerotu dava gli ordini di
manovra per l’avvicinamento alla preda seguendo le indicazioni che una vedetta, appostata su un’altura in riva
al mare guardiola o sulla antenna della feluca ntinneri
gli trasmetteva a voce agitando una bandierina bianca.
Come
detto, sulla poppa stava, ritto in piedi, ‘u lanzaturi con la lancia in mano; questi, di
solito era il capociurma, ‘u patruni,
a cui tutto l’equipaggio doveva ubbidire ciecamente, poiché era il responsabile
dell’esito del lancio, effettuato ad una distanza che poteva essere anche di
sette, otto metri dalla preda.
Nella
fase che precedeva la cattura era continuo
il vociare della vedetta e poi del falerotu che dava indicazioni
sulla rotta da seguire, incitando i compagni alla voga.
Arrivava,
quindi, il momento in cui la lancia, scagliata con violenza al grido di “Viva Santa Marta biniditta”, penetrava
nelle carni del pesce spada (la cosid-detta strumatura) che a volte, per istinto,
cercava di rivoltarsi contro il feritore. Il più delle volte, però, rimaneva
immobile per poi inabissarsi cercando una fuga irrealizzabile. ‘U
lanzaturi, infatti, iniziava a far srotolare la fune che legava la lancia dando corda, così il pesce nel suo vano
e dispen-dioso tentativo di fuga, esauriva le forze e la vitalità.
Se
il pesce spada arpionato era una femmina, non di rado il maschio affiorava
nelle vicinanze di quel tratto di mare, quasi comprendendo la tragedia che si
stava consu-mando cercava di dare aiuto alla compagna. A questo punto intervenivano altre imbarcazioni che, con la
medesima tecnica, realizzavano la fine e la sintesi del binomio
amore-morte.
Alla
fine il pesce, ormai stremato e dissanguato, veniva issato a bordo con
attenzione perché i pescatori ben conoscevano la sua capacità, anche
agonizzante, di rivoltarsi a colpi di spada contro loro e contro la barca. Una
volta in barca, sulla branchia destra del pesce spada, un pescatore incideva A cardata ra cruci, un segno a forma di
rombo, simbolo che forse inneggia alla prosperità della pesca e viene, tuttora,
sempre marchiato su tutti i pesce spada infiocinati.
C’era la tradizione – ormai
non molto presente ai nostri giorni – di tagliare la parte superiore della
testa del pesce, detta scuzzetta che
per contratto veniva data le prime due catture al padrone della barca,
successivamente una volta ciascuno a tutti gli uomini dell'equipaggio. Essendo
una prelibatezza culinaria, spesso era messa in vendita per aumentare il
guadagno. Oggi per la pesca del pesce spada si utilizzano le moderne e
velocissime feluche. Sono barche a
motore di alto mare, di maggior peso e meglio attrezzate del luntro e dotate di
ponte. Al centro della barca c’è un’antenna d’avvistamento, che si innalza fino
a 20-25 metri, con in cima una coffa dentro alla quale prende posto un antenniere sempre attento a scorgere la
preda appena sotto la superficie svolgendo il duplice compito
di avvistatore e di timoniere. Dalla prua fuoriesce una passerella, lunga 30-40 metri alla cui
estremità prende posto il fiocinatore,
pronto a seguire le evoluzioni del pesce lanciandogli contro, al momento buono,
la lunga asta provvista di arpione e legata ad una resistentis-sima corda di
nylon lunga diverse centinaia di metri. In ogni caso, l’utilizzo di questi
mezzi più moderni non ha modificato la tecnica d’inseguimento e
cattura del pesce spada, un sanguinoso scontro tra l'uomo e il pesce, in cui i
protagonisti confrontano la propria abilità e forza.
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