lunedì 14 novembre 2016

ZIA GIOVANNINA - Angela Niosi

ZIA GIOVANNINA
Angela Niosi

            Era una parente alla lontana.
            Bassa e cilindrica, si muoveva barcollando come un’onda, sia per il peso non proporzionato sia  per i reumatismi che le tormentavano le ossa.
            La ricordo con una mano perennemente appoggiata alla schiena nello sforzo di sorreggersi e di alleviare il dolore.
            Aveva occhi da lepre e labbra disegnate come una curva all’ingiù che le conferivano un’espressione seria e nervosa. Mi ero fatta l’idea che per qualche motivo genetico, non avesse la possibilità di sorridere visto che, anche quando era allegra, la bocca non riusciva a raddrizzarsi e si portava dietro tutta la faccia nella sua discesa libera.
            Anche la voce risentiva di ciò perché, quando usciva dalla curva, sbandava in una serie di suoni sgradevoli.
            I capelli, pochi e fini, erano racchiusi in un piccolo tuppo ma sembrava non ne avessero voglia perché continuavano a scappare, costringendola  spesso a sistemarli con le mani; toglieva una forcina, la appoggiava in bocca quasi fosse un mobiletto, raddrizzava il tuppo, rimetteva la molletta e scuoteva la testa da un lato come a dare il tocco finale.
            Soffriva della fastidiosa sindrome delle gambe senza riposo, lei diceva di avere i “dichi”, che l’affliggeva soprattutto quando era seduta, così si alzava e camminava un po’ scusandosi con i presenti. Dopo un breve giro di lamentazioni, si appoggiava alla spalliera di una sedia e lì rimaneva giusto il tempo di un sospiro. E via, a  ricominciare la camminata.  
            Non si era sposata e sembrava fosse nata vecchia.
            Non amava i bambini, o almeno così mi pareva.
            Manteneva le distanze, ognuno al suo posto, forse era per via della sua altezza, così vicina alla loro, che aveva paura le prendessero la mano. Quella mano che non ho mai visto allungare in una carezza.
            Lei, che non era mai stata madre, sosteneva che i bambini si dovessero baciare mentre dormivano, altrimenti sarebbero cresciuti smidollati e viziati.
            Quando andavo a trovarla con mia madre, io non ne avevo voglia, zia Giovannina mi proibiva di appoggiare le scarpe alla sbarra della sedia perché, diceva, potevo lasciarci attaccato lo sporco che sicuramente si era depositato sotto la suola. 
            E, se mi offriva un biscotto, credo pentendosi subito dopo, mi sommergeva di tovaglioli per evitare che, incautamente, io  facessi scappare qualche briciola sul pavimento appena pulito. Io mangiavo con grande ansia cercando un varco fra quella distesa di mappine odoranti di liscia che mi coprivano dal collo alle gambe.
            Non ho mai provato piacere a mangiare quei biscotti , accettavo solo per educazione e in cuor mio speravo che mia madre decidesse al più presto di  porre fine a quella visita.
            Ma lei continuava a chiacchierare ed io mi annoiavo terribilmente perché non venivo presa in considerazione.
            Così imparai a rendermi invisibile. Rimanevo immobile e mi mettevo a fissare  un punto nel muro davanti a me creando, con la fantasia, immagini surreali.
            Quando mia madre mi afferrava per il braccio, capivo che era l’ora di andare e quasi quasi mi dispiaceva dover interrompere quel gioco inventato per intrattenermi.

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