Angela Niosi
Era una parente alla lontana.
Bassa e cilindrica, si muoveva
barcollando come un’onda, sia per il peso non proporzionato sia per i reumatismi che le tormentavano le ossa.
La ricordo con una mano perennemente
appoggiata alla schiena nello sforzo di sorreggersi e di alleviare il dolore.
Aveva occhi da lepre e labbra
disegnate come una curva all’ingiù che le conferivano un’espressione seria e
nervosa. Mi ero fatta l’idea che per qualche motivo genetico, non avesse la
possibilità di sorridere visto che, anche quando era allegra, la bocca non
riusciva a raddrizzarsi e si portava dietro tutta la faccia nella sua discesa
libera.
Anche la voce risentiva di ciò
perché, quando usciva dalla curva, sbandava in una serie di suoni sgradevoli.
I capelli, pochi e fini, erano
racchiusi in un piccolo tuppo ma sembrava non ne avessero voglia perché continuavano
a scappare, costringendola spesso a
sistemarli con le mani; toglieva una forcina, la appoggiava in bocca quasi
fosse un mobiletto, raddrizzava il tuppo, rimetteva la molletta e scuoteva la
testa da un lato come a dare il tocco finale.
Soffriva della fastidiosa sindrome
delle gambe senza riposo, lei diceva di avere i “dichi”, che l’affliggeva
soprattutto quando era seduta, così si alzava e camminava un po’ scusandosi con
i presenti. Dopo un breve giro di lamentazioni, si appoggiava alla spalliera di
una sedia e lì rimaneva giusto il tempo di un sospiro. E via, a ricominciare la camminata.
Non si era sposata e sembrava fosse
nata vecchia.
Non amava i bambini, o almeno così
mi pareva.
Manteneva le distanze, ognuno al suo
posto, forse era per via della sua altezza, così vicina alla loro, che aveva
paura le prendessero la mano. Quella mano che non ho mai visto allungare in una
carezza.
Lei, che non era mai stata madre,
sosteneva che i bambini si dovessero baciare mentre dormivano, altrimenti sarebbero
cresciuti smidollati e viziati.
Quando andavo a trovarla con mia
madre, io non ne avevo voglia, zia Giovannina mi proibiva di appoggiare le
scarpe alla sbarra della sedia perché, diceva, potevo lasciarci attaccato lo
sporco che sicuramente si era depositato sotto la suola.
E, se mi offriva un biscotto, credo
pentendosi subito dopo, mi sommergeva di tovaglioli per evitare che,
incautamente, io facessi scappare
qualche briciola sul pavimento appena pulito. Io mangiavo con grande ansia cercando
un varco fra quella distesa di mappine odoranti di liscia che mi coprivano dal
collo alle gambe.
Non ho mai provato piacere a
mangiare quei biscotti , accettavo solo per educazione e in cuor mio speravo
che mia madre decidesse al più presto di
porre fine a quella visita.
Ma lei continuava a chiacchierare ed
io mi annoiavo terribilmente perché non venivo presa in considerazione.
Così imparai a rendermi invisibile.
Rimanevo immobile e mi mettevo a fissare
un punto nel muro davanti a me creando, con la fantasia, immagini
surreali.
Quando mia madre mi afferrava per il
braccio, capivo che era l’ora di andare e quasi quasi mi dispiaceva dover
interrompere quel gioco inventato per intrattenermi.
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