IL
CALIFFATO DEI NEBRODI
Giuseppe Salpietro
Suscitò
una malcelata invidiuzza in buona parte dei maschi italiani, la notizia
diffusasi negli anni Settanta del secolo scorso, che in località Cuccubello del
Comune di Sant’Agata di Militello, un califfo che portava il nome non proprio
arabeggiante di Pippineddu convivesse sotto lo stesso tetto con un piccolo
esercito di femmine.
Uscendo
dall’attuale svincolo autostradale dell’importante cittadina tirrenica posta
quasi a metà strada tra Messina e Palermo, imboccata la bretella in pendenza
verso il mare, quasi a ridosso della Strada Statale 113 un cartello indica
ancora oggi la località dove decenni addietro si riversarono per verificare la
veridicità della notizia, decine di inviati speciali di tutte le testate
giornalistiche e di buona parte delle televisioni europee, pronti a carpire
ogni dettaglio, ogni segreto che potesse trapelare sulla vicenda del califfo
Pippineddu, indagando financo sui possibili aiutini utilizzati da costui per superare
brillantemente ogni prova.
Aveva
trentatre anni all’epoca dei fatti il “sultano”, all’anagrafe Giuseppe Scaffidi
Fonte, sposato e già padre di quattro figli.
Figlio
di contadini, non aveva un mestiere stabile, anche se aveva fatto
all’occorrenza di tutto: il contadino, il venditore ambulante di ogni merce, lo
scaricatore, il meccanico, il manovale e, nel tempo rimasto a disposizione,
oltre a curare le incombenze del suo vasto e complicato harem, con la sua
moto-Ape andava anche in giro a raccogliere scarti ferrosi e roba vecchia. Non
per infierire sul personaggio nostrano, ma non solo non era ricco, ma non era
neanche un adone* Pippineddu, anzi, appariva basso e quasi tarchiato. Alla
presenza ordinaria, quasi scarsa, non veniva in soccorso neanche la loquela
fluida o forbita, e meno che meno le doti culturali, tant’è che tra gli
invidiosissimi compaesani circolava la domanda di rito “ma chi ci vistiru a chistu ‘sti fimmini?”
L’arcano
non fu mai svelato, ma resta certo che un numero esagerato di donne, quasi
tutte braccianti agricole dei paesi del circondario, si assiepavano nei pochi
ambienti del modesto tugurio, aspettando pazientemente che il califfo – così fu
definito dalla stampa nazionale -, prima o poi, le scegliesse per concedere
loro le sue amorevoli attenzioni. Solo la moglie, Concetta Cuffari, non faceva
parte dell’harem, pur senza mai divorziare, aveva già lasciato il marito da
tempo e si era trasferita successivamente in America con i figli.
Neanche
il problema del mantenimento lo impensieriva più di tanto facendogli venire
meno l’inesauribile appetito, poiché queste, come se fosse una comunità hippy
diffusa tra i figli dei fiori sul
finire degli anni Sessanta, avevano trovato lavoro nella località tirrenica
perlopiù come domestiche, provvedendo quindi a sostenersi autonomamente e
contribuendo, nel contempo, alle certo rilevanti necessità del folto gruppo
Un
tarlo al tempo arrovellava tutti: ma possibile che non ci fu mai una sciarra,
un conflitto, una tiratina di capiddi ?
A
sentire le compartecipi, sarà stato bravo Peppino, o pazienti loro, non
esisteva alcuna conflittualità interna al gruppo fin quando un giorno
dall’evoluta città tedesca di Colonia, considerata capitale culturale,
economica e storica della Renania – quindi non da Valguarnera Caropepe – si unì
alla squadra una donna dalle fattezze teutoniche, la bella Angelika di appena
22 anni, già madre di due bambini che aveva lasciato ai genitori in Germania
per rincorrere l’amore siculo.
Naturalmente,
è facile intuire che contemporaneamente all’imprevisto arrivo di Angelika la
quale, oltre che bionda, era alta in modo smisurato e sulla sua carnagione
cerulea spiccavano due splendidi occhi blu, non tardarono ad arrivare le prime
liti furibonde.
Quante erano le compartecipi consenzienti nessuno
è mai riuscito esattamente a saperlo. In quelle minuscole stanze, chiaramente,
non c’era posto per tutte e molte andavano e venivano.
Risultò
ancora più sconcertante che una di queste “amiche” fosse stata ceduta al padre
di Pippineddu in cambio di una modesta Ape Piaggio, e fu proprio
quell’incredibile ed indecente mercimonio a metterlo nei guai con la giustizia:
il figlio chiedeva, pena la decadenza dell’accordo, oltre alla moto-Ape anche
un’integrazione economica, un equo ristoro, una sorta d’indennizzo per la grave
perdita, ed il padre non intese acconsentire al vile ricatto. Litigarono
furiosamente ed apertamente sotto gli occhi di tutti i paesani, mettendo in
piazza l’indicibile vicenda che costò a Pippineddu una denunzia dall’uomo che
lo aveva messo al mondo.
Scoperto
quanto già notorio e ipocritamente taciuto o mormorato in tutto il territorio
dei Nebrodi, Pippineddu finì in galera: truffa, plagio, sfruttamento e
induzione alla prostituzione, violenza privata ed alterazione dello stato
civile, furono i reati che gli vennero contestati con ordine di cattura.
Quando
il caso assurse agli onori della cronaca e Sant’Agata di Militello apparve come
la Svezia del retrogrado Sud, i magistrati parlarono di uno "squallido
esercizio della libertà sessuale in un ambiente di miseria, di abbrutimento
fisico e morale".
Quel
vecchio cascinale era senza ombra di dubbio un ambiente di miseria e di
abbrutimento, come accerteranno i giudici, fra le concubine c’erano infatti
anche una madre e la figlia, una zia e la nipote e due sorelle. Ma nessuno poté
dimostrare che Pippineddu sfruttasse per soldi le sue donne, vendendo il loro
corpo a questo e quello o addirittura cedendo i loro bambini che erano anche
suoi, in cambio di una lauta ricompensa.
Nei
tre gradi di giudizio il processo durò complessivamente sei anni, ed alla fine
si concluse lasciandolo pressoché indenne il califfo con una assoluzione quasi
totale. Caddero, infatti, una dopo l’altra, le accuse che gli aveva mosso il
suo anziano genitore e fu condannato soltanto ad un paio di mesi per i reati di
violenza privata e alterazione dello stato civile.
Negli
anni successivi, Pippineddu riuscì poi ad avere un lavoro fisso presso il
Comune come operatore ecologico. I suoi figli, ufficialmente accertati e
censiti erano trentasei, ventisette dei quali portano ancora il suo duplice
cognome, Scaffidi Fonte.
Immaginate
quante volte il povero Pippineddu dovette varcare la soglia del reparto di
ostetricia del locale Ospedale di Sant’Agata di Militello considerato che tre,
quattro, erano gravide contemporaneamente. Poteva farci le tende se non avesse
avuto altri impegni domestici.
Trasferitosi
in un appartamento dell’Istituto Autonomo Case Popolari, sempre a Sant’Agata di
Militello, pare abbia fatto vita più morigerata – quasi casa e chiesa – unito
in un rapporto più stabile solo con la figlia e i suoi cinque figli, dell’ex
concubina più anziana.
Ufficialmente
quindi, interruppe le frequentazioni frenetiche ma piacevolmente estenuanti,
che avevano caratterizzato la sua giovinezza.
Non
tollerando più però, le continue ed ingiustificate scenate di gelosia di
quest’ultima, anche questa relazione s’interruppe bruscamente, preferendo egli
a quel punto andare a vivere con una quarantenne, madre di due ragazzi già
grandi. Figli suoi, naturalmente.
Che
fine fece l’angelica Angelika?
Tempo
prima, era arrivata sulla costa tirrenica in vacanza con un siciliano locale
padre dei suoi bambini. Poi, finita la vacanza, lui era ritornato in Germania
con i piccoli e Angelika era rimasta in Sicilia mettendo scompiglio tra le
amiche del califfo nostrano, ammaliata dalle sue irresistibili virtù amatorie.
Durante
il periodo di detenzione di Pippineddu, Angelika così com’era arrivata, se ne
tornò in Germania, ma in compagnia. Lasciò l’ingrata Sant’Agata di Militello
senza avvertire nessuno, certa che solo lui Pippineddu l’avrebbe rimpianta,
portandosi al seguito però il figlio della compagna più anziana, fratello
minore della diciottenne che aveva già dato a Pippineddu due figli e poi altri
tre. Il ragazzo aveva compiuto da poco 16 anni, sei meno di Angelika.
La
conta (quella ufficiale naturalmente) dei figli del califfo ruspante e nostrano
nebroideo si è fermata definitivamente a trentasei, ma resterà l’uomo che con
le sue incredibili gesta d’alcova ha mobilitato, più di ogni altro, nel 1979, i
giornali e le televisioni di tutto il mondo.