venerdì 14 ottobre 2016

L’IMPENETRABILE MATASSA DELL’OMICIDIO BARATTA - Giuseppe Salpietro

L’IMPENETRABILE MATASSA DELL’OMICIDIO BARATTA
Giuseppe Salpietro
E’ scontato che rispetto alla programmazione dei tempi recenti, la TV negli anni Sessanta offriva ai telespettatori un limitato e ripetitivo palinsesto. Intanto, bisognava aspettare fino alle 17,30 per vedere finalmente animarsi il monitor con la “TV dei ragazzi” e poi, dopo il seguitissimo telegiornale delle ore venti e l’immancabile Carosello, seguiva una programmazione ripetitiva, ma per i tempi straordinariamente soddisfacente.
            Il lunedì ed il mercoledì erano certamente le serate più attese, destinate alla messa in rete di film che ci facevano sgranare gli occhi davanti al cinescopio, totalmente immersi nelle scene di epici lungometraggi rigorosamente in bianco e nero. L'immagine a colori, di cui già si favoleggiava una diffusione capillare in America, sarebbe arrivata in Italia solo a partire dalla metà degli anni Settanta dopo interminabili prove tecniche, che ci mostrarono sullo schermo prima perenni immagini fisse composte da strisce verticali di diversi colori accompagnate da un sibilo mono-tono che sembrava la sirena di una fabbrica, e poi, quelle non proprio avvincenti registrate in uno zoo, in una cucina ed in un negozio di stoffe coloratissime.
            Un appuntamento settimanale imperdibile, anche perché non esistevano molte alternative, era TV7 con la sua sigla a tromba che sembrava l’adunata, trasmissione settimanale di inchieste giornalistiche sviluppata con un occhio particolare al sociale.
            Avevo già sentito parlare in famiglia del caso Spanò, ma una sera restai pietrificato, quando in uno di questi servizi ambientato nella fortificazione costiera di Porto Azzurro nell'Isola dell'Elba, poi diventò carcere di massima sicurezza dove al tempo erano reclusi gli ergastolani, alcuni “sepolti vivi” furono intervistati per raccontare ai telespettatori le loro storie di vita.
            Sfilarono innanzi alla telecamera, ritengo, una decina di detenuti che dichiararono pacatamente la loro colpevolezza e l’accettazione di una pena loro inflitta che sostanzialmente era ritenuta giusta rispetto all’errore commesso, che normalmente si era sostanziato in uno o più atti omicidiari.       Manifestarono quindi, la consapevolezza che il loro infelice stato, non era ad altri addebitabile, ma alle loro turpi azioni.
            Uno di loro no!
            Uno recitò fuori tono e fuori dagli schemi imposti dal rituale televisivo.
            Era Antonino Spanò, ex carabiniere e poi campiere, condannato per l’omicidio del noto possidente Antonio Baratta avvenuto nelle campagne di Ucria all’inizio dei mesi autunnali, che si disperava con le lacrime agli occhi, gridando agli italiani d’avanti alla telecamera la propria innocenza.
            La complessa vicenda di quello che si profilò in seguito come un assurdo errore giudiziario, si colloca temporalmente nell’immediato dopoguerra quando ad Ucria, tra le ore 21.00 e le 21.30 del 4 ottobre 1945, tre malviventi a volto coperto, compartecipi del medesimo disegno criminoso, irruppero in una casa di campagna spararono un solo colpo di moschetto che non lasciò scampo all’anziano avvocato Francesco Baratta.
            Baratta, come ogni anno, si trovava nella contrada Marzana di Ucria – raggiungibile percorrendo la Strada Provinciale Ucria / Raccuia -, per curare gli affari della terra, e considerato il periodo degli eventi che segue di poco la raccolta delle nocciole, si presume che conclusa la vendita del prodotto, era prossimo a fare ritorno nella città di Palermo dove normalmente risiedeva.
            La casa dei Baratta di località Marzana visibile da ogni contrada del paese di Ucria guardando là dove sorge il sole, nonostante il successivo abbandono, appare ancora oggi un bel palazzotto signorile a due elevazioni con copertura in tegole. Luogo che appare a vista equidistante dai due centri montani di Ucria e Raccuja - in linea d’aria a qualche chilometro appena dai due centri abitati -, nel bel mezzo di fitti noccioleti dal colore estivo verde intenso.
            I tre, che pare avessero in animo di compiere una rapina, ma poi nulla asportarono dall’immobile considerato il precipitare degli eventi, riuscirono ad introdursi nell’abitazione di campagna con uno stratagemma. Infatti, per farsi aprire dalla stessa vittima costrinsero il suo campiere Sebastiano Martelli che riposava con la moglie in un locale attiguo, a bussare all’uscio già chiuso per la notte del ricco proprietario terriero che, seppur per natura diffidente, senza alcun sospetto aprì al suo dipendente.
            Antonino Spanò, nativo di San Piero Patti, ma conosciutissimo anche ad Ucria dove aveva lavorato per alcuni anni alle dipendenze proprio dei Baratta, dopo una dura giornata di lavoro nelle campagne, aveva fatto rientro attorno alle ore 19.30 nella propria modesta abitazione di località Sambuco nel Comune di San Piero Patti in quella che viene ricordata come una serata autunnale caratterizzata da un clima particolarmente avverso.
            I rapporti di Antonio Spanò con Francesco Baratta, non erano rimasti cordiali, incrinati negli anni precedenti da vicende legate alla comproprietà di un’asina reclamata dal Baratta e che quindi, dopo il licenziamento, il campiere era stato costretto a restituire ricevendone la metà del suo valore di stima.
            Avviate le indagini e gli interrogatori per quell’omicidio che vedeva vittima un esponente di una delle famiglie più in vista e potenti del territorio nebroideo, Sebastiano Martelli, che dapprima sostenne di non aver riconosciuto nessuno dei malviventi, indicò poi, quale membro del gruppo nonché esecutore materiale l’ex campiere Antonino Spanò al quale, a suo dire, era stato letteralmente strappato dalla vittima quanto utilizzava per travisare il suo volto.
            Il malfattore pare indossasse una divisa militare della quale, nella concitazione del momento, perse un bottone.
            Una giubba dello stesso tipo fu in effetti ritrovata senza bottoni a casa di Spanò, ma non era difficile, considerati i tempi, che in ogni casa ve ne fosse una. I pastori poi la ritenevano particolarmente adatta per la resistenza del tessuto.
            All’arresto del presunto colpevole seguì un rapido e lacunoso processo che si concluse il 21 maggio del 1947.
Sostanzialmente i moventi addotti furono individuati nel rancore personale di Spanò verso Baratta riconducibile al licenziamento ed alla spartizione dell’asina.
            La Corte d’Assise di Messina condannò quindi Spanò alla pena dell’ergastolo nonostante fosse stato certamente visto da tanti suoi paesani fare rientro nella propria abitazione di San   Piero Patti, quindi a molti chilometri dal luogo del delitto, un’ora e trenta prima del fatto di sangue.
            I giudici considerarono schiaccianti le testimonianze dell’anziana domestica del possidente ucciso, che però ritrattò in punto di morte, e del figlio di Martelli – fidanzatino osteggiato della figlia di Spanò – il quale sostenne, senza addentrarsi nelle specifiche circostanze che caratterizzavano il percorso da compiere in ore notturne e sotto la pioggia insistente, che la distanza tra Sambuco ed Ucria poteva colmarsi a piedi in circa un’ora.
            Non fu mai disposto un esperimento giudiziario che avrebbe potuto stabilire con certezza la durata del tempo di percorrenza dalla casa di Spanò a quella di Marzana.
            Negli anni Sessanta, il giovane giornalista Giuseppe Messina a seguito di una specifica richiesta pervenutagli direttamente da Salvatore, 32 anni, il più anziano dei figli di Spanò che lo aveva avvicinato a Patti, ponendosi contro la volontà di Nino Amadori - padovano suo direttore alla Tribuna del Mezzogiorno -, che, dopo avere consultato un legale gli aveva posto imperiosamente il veto, coraggiosamente e senza farne preventivamente parola con alcuno, ripropose il caso  rimettendo in moto la macchina giudiziaria.
            Rischiò il licenziamento, ma poi le vendite s’impennarono e tutti dimenticarono presto la grave insubordinazione.
            Nel maggio del 1965, infatti, con un articolo pubblicato su La Tribuna del Mezzogiorno dal titolo “Forse un innocente da vent’anni in carcere”, il giovane cronista grazie anche al successivo intervento degli illustri difensori di Spanò, Tullio Trifilò di Capo d’Orlando e del senatore Giovanni Leone - divenuto in seguito Presidente della Repubblica nel ’71 e nel ‘78 indotto a dimettersi travolto dagli scandali e da fatti conclamati di nepotismo  -, riesce dopo 4 anni a fare liberare e riabilitare Spanò.
            La perseveranza del cronista si traduce, dopo già 18 anni di reclusione, nella richiesta, per mano dei difensori, alla Corte d’appello di Messina della riapertura del caso ( 12 luglio 1965) sulla base di fatti nuovi che vengono ritenuti validi e sufficienti.
            Dopo circa 7 mesi, la Suprema Corte concesse la libertà provvisoria d’ufficio all’ex campiere che ritornò a San Piero Patti in attesa del processo di revisione e finalmente nel giugno del 1969, a distanza di 25 anni dall’arresto, Antonino Spanò tornò definitivamente libero privo di ogni macchia.
            Cala il sipario sulla lunga, intrigata e per certi versi mai chiarita vicenda della tragica morte del possidente Baratta per mani assassine di un uomo certamente conosciuto dalla stessa vittima e dai suoi dipendenti lì presenti.
            In Tribunale, alla lettura del dispositivo di assoluzione l’ex carabiniere fu colto da una crisi di pianto irrefrenabile, abbracciando in segno di gratitudine per primo, il giovane giornalista Giuseppe Messina artefice della sua innocenza.
            Antonino Spanò ha vissuto gli ultimi anni della sua vita svolgendo nel piccolo centro nebroideo di San Piero Patti la professione di messo notificatore, lavoro assegnatogli dal sindaco di allora Tino Santi Natoli.
            Questo caso, che costituisce uno dei più gravi ed inammissibili sbagli compiuti dalla giustizia nel secolo scorso, è stato raccontato dallo stesso giornalista Giuseppe Messina nel suo libro presentato nel 2007 nella città di Messina: “Il caso Spanò”, recante il seguente emblematico sottotitolo, “Il più grave errore giudiziario italiano”.
            Ebbi modo di conoscere Spanò alcuni anni dopo la sia liberazione proprio nella Piazza del suo amato paese San Piero Patti, conservo ancora il ricordo di un uomo anziano infinitamente cortese e apparentemente straordinariamente sereno. La riconquistata libertà coniugata all’unanime rispetto manifestato dalla società civile verso un uomo che era stato, suo malgrado, protagonista di una così penosa vicenda, avevano indubbiamente generato intimo appagamento.
            Amaro, intimo appagamento.
            Il vero omicida non fu mai individuato, anche se restano inesplorate alcune possibili ipotesi sempre basate su forti rancori personali e su vite brutalmente ed inutilmente spezzate.
Ma questa è un’altra storia.



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