Giuseppe Salpietro
E’ scontato che rispetto alla
programmazione dei tempi recenti, la TV negli anni Sessanta offriva ai
telespettatori un limitato e ripetitivo palinsesto. Intanto, bisognava aspettare fino alle 17,30 per vedere
finalmente animarsi il monitor con la “TV dei ragazzi” e poi, dopo il
seguitissimo telegiornale delle ore venti e l’immancabile Carosello, seguiva
una programmazione ripetitiva, ma per i tempi straordinariamente soddisfacente.
Il
lunedì ed il mercoledì erano certamente le serate più attese, destinate alla
messa in rete di film che ci facevano sgranare gli occhi davanti al cinescopio,
totalmente immersi nelle scene di epici lungometraggi rigorosamente in bianco e
nero. L'immagine a colori, di cui già si favoleggiava una diffusione capillare
in America, sarebbe arrivata in Italia solo a partire dalla metà degli anni
Settanta dopo interminabili prove tecniche, che ci mostrarono sullo schermo
prima perenni immagini fisse composte da strisce verticali di diversi colori
accompagnate da un sibilo mono-tono che sembrava la sirena di una fabbrica, e
poi, quelle non proprio avvincenti registrate in uno zoo, in una cucina ed in
un negozio di stoffe coloratissime.
Un
appuntamento settimanale imperdibile, anche perché non esistevano molte
alternative, era TV7 con la sua sigla a tromba che sembrava l’adunata, trasmissione
settimanale di inchieste giornalistiche sviluppata con un occhio particolare al
sociale.
Avevo già sentito parlare in
famiglia del caso Spanò, ma una sera restai pietrificato, quando in uno di
questi servizi ambientato nella fortificazione costiera di Porto Azzurro nell'Isola
dell'Elba, poi diventò carcere di massima sicurezza dove al tempo erano reclusi
gli ergastolani, alcuni “sepolti vivi” furono intervistati per raccontare ai
telespettatori le loro storie di vita.
Sfilarono innanzi alla telecamera,
ritengo, una decina di detenuti che dichiararono pacatamente la loro colpevolezza
e l’accettazione di una pena loro inflitta che sostanzialmente era ritenuta
giusta rispetto all’errore commesso, che normalmente si era sostanziato in uno
o più atti omicidiari. Manifestarono quindi, la consapevolezza che
il loro infelice stato, non era ad altri addebitabile, ma alle loro turpi
azioni.
Uno di loro no!
Uno recitò fuori tono e fuori dagli
schemi imposti dal rituale televisivo.
Era Antonino Spanò, ex carabiniere e
poi campiere, condannato per l’omicidio del noto possidente Antonio Baratta
avvenuto nelle campagne di Ucria all’inizio dei mesi autunnali, che si
disperava con le lacrime agli occhi, gridando agli italiani d’avanti alla
telecamera la propria innocenza.
La
complessa vicenda di quello che si profilò in seguito come un assurdo errore
giudiziario, si colloca temporalmente nell’immediato dopoguerra quando ad
Ucria, tra le ore 21.00 e le 21.30 del 4 ottobre 1945, tre malviventi a volto
coperto, compartecipi del medesimo disegno criminoso, irruppero in una casa di
campagna spararono un solo colpo di moschetto che non lasciò scampo all’anziano
avvocato Francesco Baratta.
Baratta, come ogni anno, si trovava
nella contrada Marzana di Ucria – raggiungibile percorrendo la Strada
Provinciale Ucria / Raccuia -, per curare gli affari della terra, e considerato
il periodo degli eventi che segue di poco la raccolta delle nocciole, si
presume che conclusa la vendita del prodotto, era prossimo a fare ritorno nella
città di Palermo dove normalmente risiedeva.
La casa dei Baratta di località
Marzana visibile da ogni contrada del paese di Ucria guardando là dove sorge il
sole, nonostante il successivo abbandono, appare ancora oggi un bel palazzotto
signorile a due elevazioni con copertura in tegole. Luogo che appare a vista
equidistante dai due centri montani di Ucria e Raccuja - in linea d’aria a qualche chilometro appena dai due centri abitati -,
nel bel mezzo di fitti noccioleti dal colore estivo verde intenso.
I tre, che pare avessero in animo di
compiere una rapina, ma poi nulla asportarono dall’immobile considerato il
precipitare degli eventi, riuscirono ad introdursi nell’abitazione di campagna
con uno stratagemma. Infatti, per farsi aprire dalla stessa vittima costrinsero
il suo campiere Sebastiano Martelli che riposava con la moglie in un locale
attiguo, a bussare all’uscio già chiuso per la notte del ricco proprietario
terriero che, seppur per natura
diffidente, senza alcun sospetto aprì al suo dipendente.
Antonino Spanò, nativo di San Piero
Patti, ma conosciutissimo anche ad Ucria dove aveva lavorato per alcuni anni
alle dipendenze proprio dei Baratta, dopo una dura giornata di lavoro nelle
campagne, aveva fatto rientro attorno alle ore 19.30 nella propria modesta
abitazione di località Sambuco nel Comune di San Piero Patti in quella che
viene ricordata come una serata autunnale caratterizzata da un clima
particolarmente avverso.
I rapporti di Antonio Spanò con
Francesco Baratta, non erano rimasti cordiali, incrinati negli anni precedenti
da vicende legate alla comproprietà di un’asina reclamata dal Baratta e che
quindi, dopo il licenziamento, il campiere era stato costretto a restituire
ricevendone la metà del suo valore di stima.
Avviate le indagini e gli
interrogatori per quell’omicidio che vedeva vittima un esponente di una delle
famiglie più in vista e potenti del territorio nebroideo, Sebastiano Martelli,
che dapprima sostenne di non aver riconosciuto nessuno dei malviventi, indicò
poi, quale membro del gruppo nonché esecutore materiale l’ex campiere Antonino
Spanò al quale, a suo dire, era stato letteralmente strappato dalla vittima
quanto utilizzava per travisare il suo volto.
Il
malfattore pare indossasse una divisa militare della quale, nella concitazione
del momento, perse un bottone.
Una giubba dello stesso tipo fu in
effetti ritrovata senza bottoni a casa di Spanò, ma non era difficile,
considerati i tempi, che in ogni casa ve ne fosse una. I pastori poi la
ritenevano particolarmente adatta per la resistenza del tessuto.
All’arresto del presunto colpevole
seguì un rapido e lacunoso processo che si concluse il 21 maggio del 1947.
Sostanzialmente
i moventi addotti furono individuati nel rancore personale di Spanò verso
Baratta riconducibile al licenziamento ed alla spartizione dell’asina.
La
Corte d’Assise di Messina condannò quindi Spanò alla pena dell’ergastolo
nonostante fosse stato certamente visto da tanti suoi paesani fare rientro
nella propria abitazione di San Piero
Patti, quindi a molti chilometri dal luogo del delitto, un’ora e trenta prima
del fatto di sangue.
I giudici considerarono schiaccianti
le testimonianze dell’anziana domestica del possidente ucciso, che però
ritrattò in punto di morte, e del figlio di Martelli – fidanzatino osteggiato
della figlia di Spanò – il quale sostenne, senza addentrarsi nelle specifiche
circostanze che caratterizzavano il percorso da compiere in ore notturne e sotto
la pioggia insistente, che la distanza tra Sambuco ed Ucria poteva colmarsi a
piedi in circa un’ora.
Non fu mai disposto un esperimento
giudiziario che avrebbe potuto stabilire con certezza la durata del tempo di
percorrenza dalla casa di Spanò a quella di Marzana.
Negli anni Sessanta, il giovane
giornalista Giuseppe Messina a seguito di una specifica richiesta pervenutagli
direttamente da Salvatore, 32 anni, il più anziano dei figli di Spanò che lo
aveva avvicinato a Patti, ponendosi contro la volontà di Nino Amadori -
padovano suo direttore alla Tribuna del Mezzogiorno -, che, dopo avere
consultato un legale gli aveva posto imperiosamente il veto, coraggiosamente e
senza farne preventivamente parola con alcuno, ripropose il caso rimettendo in moto la macchina giudiziaria.
Rischiò il licenziamento, ma poi le
vendite s’impennarono e tutti dimenticarono presto la grave insubordinazione.
Nel maggio del 1965, infatti, con un
articolo pubblicato su La Tribuna del Mezzogiorno dal titolo “Forse un
innocente da vent’anni in carcere”, il giovane cronista grazie anche al
successivo intervento degli illustri difensori di Spanò, Tullio Trifilò di Capo
d’Orlando e del senatore Giovanni Leone - divenuto in seguito Presidente della
Repubblica nel ’71 e nel ‘78 indotto a dimettersi travolto dagli scandali e da
fatti conclamati di nepotismo -, riesce
dopo 4 anni a fare liberare e riabilitare Spanò.
La perseveranza del cronista si
traduce, dopo già 18 anni di reclusione, nella richiesta, per mano dei
difensori, alla Corte d’appello di Messina della riapertura del caso ( 12
luglio 1965) sulla base di fatti nuovi che vengono ritenuti validi e
sufficienti.
Dopo circa 7 mesi, la Suprema Corte
concesse la libertà provvisoria d’ufficio all’ex campiere che ritornò a San
Piero Patti in attesa del processo di revisione e finalmente nel giugno del
1969, a distanza di 25 anni dall’arresto, Antonino Spanò tornò definitivamente
libero privo di ogni macchia.
Cala
il sipario sulla lunga, intrigata e per certi versi mai chiarita vicenda della
tragica morte del possidente Baratta per mani assassine di un uomo certamente
conosciuto dalla stessa vittima e dai suoi dipendenti lì presenti.
In Tribunale, alla lettura del
dispositivo di assoluzione l’ex carabiniere fu colto da una crisi di pianto
irrefrenabile, abbracciando in segno di gratitudine per primo, il giovane
giornalista Giuseppe Messina artefice della sua innocenza.
Antonino Spanò ha vissuto gli ultimi
anni della sua vita svolgendo nel piccolo centro nebroideo di San Piero Patti
la professione di messo notificatore, lavoro assegnatogli dal sindaco di allora
Tino Santi Natoli.
Questo caso, che costituisce uno dei
più gravi ed inammissibili sbagli compiuti dalla giustizia nel secolo scorso, è
stato raccontato dallo stesso giornalista Giuseppe Messina nel suo libro presentato
nel 2007 nella città di Messina: “Il caso Spanò”, recante il seguente
emblematico sottotitolo, “Il più grave errore giudiziario italiano”.
Ebbi
modo di conoscere Spanò alcuni anni dopo la sia liberazione proprio nella
Piazza del suo amato paese San Piero Patti, conservo ancora il ricordo di un
uomo anziano infinitamente cortese e apparentemente straordinariamente sereno.
La riconquistata libertà coniugata all’unanime rispetto manifestato dalla
società civile verso un uomo che era stato, suo malgrado, protagonista di una
così penosa vicenda, avevano indubbiamente generato intimo appagamento.
Amaro, intimo appagamento.
Il
vero omicida non fu mai individuato, anche se restano inesplorate alcune
possibili ipotesi sempre basate su forti rancori personali e su vite
brutalmente ed inutilmente spezzate.
Ma questa è un’altra storia.
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