DUCI DUCI
* Giuseppe Salpietro *
A
differenza dei “sofisticati” dolci messinesi, ricchi di creme, ricotta, frutta
candita e altre prelibatezze in grado di esaltare il palato e sorprendere le
papille gustative dei “cittadini”, i dolci dei Nebrodi hanno nei secoli
rivestito il ruolo solo apparente del parente povero, quasi “strazzato”,
legando la loro sopravvivenza certo non ostentata, sia al lento cadenzare del
calendario liturgico con i suoi inalterati riti che alternano festività
religiose a periodi penitenziali, che alla sovrabbondanza di materia prima a
basso costo facilmente reperibili nel territorio, in modo particolare la frutta
secca.
L'utilizzo
dei dolci nella cucina ha visto una notevole espansione solo negli ultimi
quattro secoli, in concomitanza con una maggiore reperibilità di alcuni
ingredienti, primo fra tutti lo zucchero. I dolcificanti infatti, rimasero per
secoli legati al massiccio uso della frutta, dei derivati del mosto ed al miele
che veniva aggiunto come ingrediente di complemento a molti altri alimenti.
Apparentemente,
non sembra proprio che il comprensorio nebroideo abbia ricevuto influenza
alcuna dalle tante leccornie, che a dire il vero si infornavano “a
tinchité” in tutti i Conventi siciliani
e di cui le numerose monache risultavano gelose depositarie.
“I duci”, con i loro carico di simbologia rituale e il loro forte
legame con il calendario liturgico, costituivano regali preziosi destinati ai
benefattori del convento, perlopiù: vescovi, prelati, confessori personali,
medici e professionisti; insomma, soggetti con i quali queste, molto spesso,
dovevano entrare in contatto per le incombenti necessità terrene. A
tal proposito, ricordo che per anni nei miei periodici spostamenti a Palermo
cercai senza mai trovarla “a minna da monaca”, dolce che richiama nel suo nome
il legame con il luogo ecclesiastico che ne custodiva i procedimenti di
realizzazione, ma che ne svela anche la sua ardita forma.
In
tempi relativamente recenti, nonostante questa concentrazione di ogni ben di
Dio nelle città e nei conventi, nelle comunità che abitavano i luoghi lontani
dalla vita più agiata e dalla costa, era inimmaginabile per cronica carenza di
risorse e di clientela una autonoma attività pasticcera, risultando l’arte
nella pratica demandata in via complementare e succedanea a quella categoria di artigiani già
capillarmente diffusa in ogni angolo sperduto del territorio: “u funnaru”, che
nonostante ciò, non poteva certo sfruttare posizioni monopolistiche, considerato
che orde di massaie erano in grado di soddisfare le pur modeste esigenze
familiari con abbondanti cucchiaiate di biancomangiare ( tra i più poveri e
diffusi dolci a base di latte), di mostarda (realizzata al tempo della
vendemmia con il mosto), di farinata (realizzata con fichi d’india), di “turruni
boni pi rumpiri i denti”, ottenuto dalla cristallizzazione dello zucchero in un
tegame, miscelato durante la fusione con nocciole abbrustolite dopo la
sgusciatura.
Nel
piccolo centro di Ucria ricordo ancora “a Turturiciana”, una fornaia originaria
di Tortorici, che trasferitasi dal vicino Paese, lì aveva impiantato la propria
attività economica portando in dote parte delle tradizioni legate all’arte
della pasticceria panaria del paese di provenienza. Come ricordo il sig.
Salvatore Russo “u funnaru”, che in Piazza Dante replicava produzioni di
biscotti e “pipareddi” secondo tradizioni apprese in gioventù a Randazzo ed
ancora il bar Franchina, posizionato all’estremità a monte del belvedere
rinomato per i suoi biscotti di Riposto ed il bar Salpietro, attuale bar Roxy,
specializzato nella produzione di torroni.
Nonostante
il mulo e lo “scecco” non agevolassero la velocità dei traffici, la
contaminazione delle tradizioni tra zone viciniori era forte, specie per fatti
legati alle non infrequenti vicende terrene d’amore, e come effetto era
complicato capire se la Pasta Reale della “tortoriciana” fosse migliore da
quella prodotta nel territorio che ne reclamava le origini facendole risalire
al 1600, o se i “pipareddi” del giovane randazzese Russo, non superassero nel
sapore delicato e dolce le più blasonate e complesse preparazioni del grande
centro del catanese.
Se cercate qualcosa che unisca gli
uomini attraverso i secoli, i continenti e perfino le religioni è “u duci”.
Tra
questi posto di rilievo merita la Pasta Reale, che già anticipa nel nome la
regalità del prodotto dolciario, pasta da Re. Il dolce viene preparato dopo
avere eliminato la pellicola alle nocciole ancora calde ed averle pestate nel
mortaio o nella madia, amalgamando in un tutt’uno con l’ausilio di poca acqua,
granella di nocciole tostate e zucchero in parti uguali. L’impasto ottenuto,
richiede che con le mani vengano composte delle grossolane sfere di pasta
amalgamata poi adagiate sopra una “lanna”, esercitando nel contempo, una
leggera pressione con tre dita (pollice indice e medio), allo scopo di ottenere
tre solchi. Nella teglia da forno leggermente unta dove procederà brevemente
l’asciugatura, l’impasto nella forma così ottenuta di tronco di piramide, viene
posto nel forno che ad una temperatura di circa 160 gradi determina la
cristallizzazione del prodotto finito rendendolo gonfio e dorato, a forma
irregolare e dalla consistenza croccante. Le singole forme di Pasta Reale fatte
raffreddare e staccate dalla “latta” vengono cosparse di abbondante zucchero a
velo, come fossero imbiancate da delicata neve caduta sui monti.
Specialità
della “tortoriciana” era poi “a nuvoletta”, diffusa anch’essa in tutto il
comprensorio dei Nebrodi. Dolce a base
d'uovo e farina, perfettamente piatto alla base, dal tipico colore bianco della
pasta ricoperta da una crosta panciuta sottile prevalentemente liscia, ma a
tratti rugosa, morbido e soffice proprio come una nuvola. La lavorazione di
queste nuvole, richiede che siano montate a lungo uova con dello zucchero fino
ad ottenerne un composto spumoso che miscelato a piccole quantità di farina
diviene liscio ed omogeneo. L'impasto
viene poi disposto a cucchiaiate sopra una teglia, rispettando una
distanza idonea ad impedire che i singoli pezzi ottenuti si attacchino tra
loro, che sarà poi riposta nel forno ad una temperatura di circa 180 gradi per 15/20 minuti.
Specialità
del fornaio Russo erano invece i biscotti a forma di S chiamati “a Batia”, nome
che rivela anche in questo caso le origini del prodotto dolciario legato
indissolubilmente all’abbazia,
complesso di edifici claustrali dove viveva la comunità monastica.
Come
fortemente legate ai prodotti del territorio vocato in modo radicale
all’attività coricola erano i “pipareddi”, ottenuti dall’impasto di nocciole,
farina e zucchero che adagiato a forma allungata, veniva dopo una prima fase di
cottura, tagliato a strisce uniformi che reintrodotte nel forno per completare
la cottura, acquistavano una doratura completa sui quattro lati ed una
croccantezza uniforme.
E come non ricordare ancora, tipica
delle festività pasquali ed invero estesa a
quasi tutti i paesi di Sicilia, la produzione delle “cuddure”. Dolce di
antica origine contadina, legato all'uso dell'uovo, un alimento che non mancava
mai, e considerato per molto tempo il dolce dei poveri: “pupi cu l’ova, aceddi
cu l’ova, cuddura, cannateddi, campanaru, panaredda,cuddureddi, cullure, … “,
il modo di chiamarlo cambia da paese in paese, ma resta da sempre un dolce
tipico della Pasqua nella tradizione radicata della Sicilia, ed
indipendentemente dalla forma, l’importante è che le uova siano di numero
dispari. Non v’era nessun bambino che non ne ricevesse una di cuddure e gli
abili panettieri sbizzarrivano la loro creatività creando intrecci, cestini e
colombe che rapivano per la bellezza artistica, ma anche per i colori
sgargianti ottenuti talvolta, applicando piccoli frammenti di carta lucida ad
esaltarne i dettagli. Sempre nella tradizione vi era inoltre l’uso di una forma
piuttosto che un’altra in base alla persona che doveva riceverla. La classica
era quella circolare da cui prende appunto il nome “a cuddura” dal greco
kulloura che significa “corona”, a forma di campana per sottolineare la festa
della resurrezione, a forma di cesto per augurare abbondanza, e così via, e più
uova c’erano maggiore era l’importanza della persona a cui andava regalata. E
per buon augurio di fertilità le uova andavano colorate di rosso facendole
bollire in un decotto di una radice che gli dava la colorazione rossa.
Una
variante molto simile, con intrecci sagomati a forma di cuore, era preparata
dalle giovani donne in età da marito per i fidanzati a dimostrazione dei loro
forti sentimenti.
Il dolce è
sapore e simbolo, gusto e filosofia, piacere e pensiero.
La storia del “dolce” ci porta alla
scoperta di una vicenda appassionante
che attraversa i millenni per arrivare non solo al nostro palato ma
anche al nostro modo di vivere, ma nessuno pensa mai al valore simbolico della
“guantiera”.
Era
infatti d’uso recarsi a fare visita a parenti ed amici immancabilmente con una
guantiera di dolci. Soltanto in occasione di funerali ed altri eventi infausti,
era contemplata la possibilità di portare in dono zucchero e caffè. Per il
resto, l’incontro con consanguinei ed amici, doveva essere sacralizzato da una
bella guantiera di dolci. A Messina: cannoli, viennesi, paste ripiene, pesche,
nzuddi, pastine secche o biscotti da te riservati prevalentemente agli
ammalati, venivano prima riposti sopra una elegante carta “a pizzo” adagiata sopra il vassoio, ed il tutto
ricoperto con altra carta traslucida e poi avvolto ancora nella carta da
pasticceria rigorosamente personalizzata. Fondamentale risultava proprio la
personalizzazione, oggi diremmo il packaging, che attestava senza ombra di
dubbio alcuno la provenienza e la riconosciuta maestria degli apprezzatissimi
pasticceri, un tempo abili maestranze dei diversi rinomati laboratori
esistenti: Billè, De Pasquale, Irrera, Jeni, Petrella, Pisani, Vallone, Venuti
..
Sui
Nebrodi la guantiera, che etimologicamente e storicamente nasce come
contenitore di guanti, appare più ordinaria, il cartone pressato che ne
costituisce la base non era né dorato né argentato, mai sperluccicante, la
carta era grossolana e priva di insegne riconducibili al produttore, ma se la prosa
vale quanto la poesia, il contenuto fatto di dolci semplici e genuini, ricchi
di tradizioni, esperienze tramandate, necessità di vita concrete, ne fa
comunque delle piccole opere d’arte capaci di donare non solo sensazioni
piacevoli al gusto, ma cibo per lo spirito.
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