VANEDDE
Angela Niosi
Pericolosamente
in discesa o mitigate da gradini facilitatori, piatte o sfacciatamente sinuose,
protette dalla complicità di case discrete, le vanedde rappresentavano il luogo
privilegiato di incontri segreti e misteriosi giochi di bimbi.
Appoggio lo
sguardo su di esse e capisco che soffrono di abbandono.
Lo capisco
dall’erba sfrontata che, pian piano, si appropria di altro spazio, lo capisco
dai pezzi di carta ingiallita che nessuno raccoglie, lo capisco dalla
sgretolatura di muri appassiti.
Mentre
procedo con lentezza, avverto la solitudine delle case che le guardi e ti
sembrano persone ferite.
Quella ha la
testa sfondata perché le tegole non hanno retto più, quell’altra ha gli occhi
ciechi perché nessuno si affaccia dalle finestre per spiare là fuori,
quell’altra ancora ha la bocca deformata perché la porta non si è più
aperta ad accogliere sorrisi.
Raccontano le
vanedde. E raccontano le case.
Ed io ascolto.
Ascolto voci
sussurrate a scambiarsi segreti, grida di mamme che chiamano figli distratti,
voci gioiose di bimbi in cerca di nascondigli sicuri, pianti di neonati cullati
da antiche nenie.
Ed io annuso.
Annuso gli
odori, fantasia di cucine intrecciate sfuggite a massaie sudate, a stuzzicare i
nasi curiosi.
Ed io vedo.
Vedo graste
di basilicò davanti alle case e fili di tende che si muovono all’aria.
E donne
sedute a sgranare fagioli con un occhio che l’altro serve a spiare
passanti.
Rivedo la
vita e mi rimbomba nell’anima.
Rivivono le
vanedde, rivivono tutte le volte che ci passi perché le nutri coi tuoi ricordi
e le rivedi con gli occhi felici di ieri.
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