venerdì 14 ottobre 2016
La Cruna dell'Ago - Anno n. 1 - n. 9 - Ottobre 2016
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Ubicazione:
98060 Ucria ME, Italia
NE ABBIAMO FATTO DI STRADA - Carmelina Allia
Carmelina Allia
Mi
piace condividere e consegnare ai giovani qualche episodio del nostro passato
che delle mie amiche: Peppina Galvagno e
Franca Lembo, testimoni oculari, mi hanno raccontato.
I
primi due episodi hanno molto in comune e denotano una mentalità diffusa, ma
nella loro negatività ci parlano del cammino fatto nella società per superare
le differenze di "classe sociale", rafforzando la speranza che le
situazioni nel tempo si evolvono in meglio.
E
perché ho la certezza che, grazie a Dio, indietro non si torna, mi accingo, a
mia volta, a raccontare questi episodi.
Erano gli anni in cui gran parte
della popolazione ucriese, povera e poco istruita, era alla mercé di alcuni
proprietari e dei loro diretti collaboratori, spesso arroganti e prepotenti.
Essendo
i mariti al fronte, alle mogli dei contadini restava il compito di provvedere
alle necessità della famiglia, spesso composta da numerosi figli.
Una
contadina, di nome Concetta, aveva un piccolo appezzamento di terreno
confinante con la proprietà di uno dei " signori" di Ucria, presso
cui lavorava a raccogliere nocciole.
Alla
fine di una giornata di lavoro, la contadina si fermò a prendere un po' di
legna, disseminata nel terreno del "padrone", legna che le sarebbe
servita per accendere il forno per cuocere il pane per i suoi bambini.
Ma il " campiere", accortosi del
fascio di legna che la contadina stava per portare a casa, pretese che il
giorno dopo facesse una giornata di lavoro non retribuita, in compenso della
legna da bruciare. Poi, ancora indignato, rimprovero' la nipote della
contadina, che senza permesso, aveva osato raccogliere un fiore, attirata dal
suo bel colore rosso, raccomandando alla zia di essere più attenta perché il
fatto non si ripetesse mi più.
Anche la signora Martelli Carmela con la
nipotina "Ciccina", si recò in una fredda mattina di gennaio di
circa 80 anni fa, in contrada " Bellino", sperando di trovare un po'
di legna e di minestra "maritata". Avrebbe fatto riscaldare i suoi
che l'aspettavano a casa e dare loro qualcosa di caldo da mangiare.
Aveva
già raccolto qualche rametto di nocciolo secco e un po' di minestra, quando
comparve il campiere, che così apostrofò la poveretta: "Gnura Carmina, pusati i ligna e a minestra
e di cca' vinnati a jiri subbitu".
La
signora Carmela, mortificata e umiliata, anche perché "a picciridda" aveva assistito alla scena, lasciò tutto
e, tenendo la nipotina per mano, scusandosi si allontano in fretta.
Erano proprio duri quei tempi per la povera
gente!
Oggi
atteggiamenti del genere ci sembrano inverosimili, ma furono una triste realtà!
E
ancora un atro episodio che fa riflettere e nella sua crudezza ci fa scorgere
il seme del cambiamento nei rapporti di lavoro.
Era l'ultimo giorno di raccolta delle nocciole
in una proprietà, ad Ucria, verso gli anni 50.
La
"padrona" aveva promesso alle donne "dell'antu", circa 25,
che quel giorno avrebbero fatto" a scialata di mezzogiorno.
In
uno spiazzo fece accendere il fuoco sotto un recipiente di rame stagnato: "u lavizzu", mentre in casa
veniva preparata la salsa con i pomodori dell'orto.
Quando
l'acqua del recipiente bolli', la "padrona" vi svuotò un sacchetto di
pane raffermo, che suo marito aveva riportato da Enna, dove si era fermato
alcuni giorni per motivi di lavoro.
Poi
versò "'nto lavizzu" la salsa già pronta e con un mestolo cominciò a
distribuire quel pane alle lavoranti.
Soltanto
qualche anziana ne mangiò, le altre lo rifiutarono mugugnando e dicendo che non
essendo più bambine non avevano bisogno di "pane cotto".
Era
un bel segnale: cominciava a farsi strada nella povera gente, la coscienza di
essere "persone" e di avere una dignità meritevole di essere
rispettata!
Da
quel tempo, con l'aiuto di Dio, ne abbiamo fatto di strada, ma quanta ancora ce
ne resta da fare?
Forse anche oggi si annidano nel nostro
cuore sentimenti di non accoglienza e di sfruttamento nei riguardi di chi,
rischiando spesso la vita, è costretto a lasciare la propria terra, a causa
della guerra e della fame.
Ma di cuore ci auguriamo
che tutti possiamo crescere ne!!a consapevolezza che in questa avventura che è
la "Vita", bella, anche se, a volte faticosa, siamo compagni di
viaggio e che, insieme, si può andare lontano, raggiungere nuove mete, sognando orizzonti
aperti!NONNA - Angela Niosi
Angela
Niosi
Con
gli anni si era accorciata, forse per colpa di quella ondulazione che le era
spuntata fra il collo e le scapole.
Carnagione chiara, occhi scuri
come il dolore che le tormentava l’anima, labbra sottili che bloccavano la via
di fuga alle parole.
Sgranava
rosari più di una volta al giorno ricordando nelle preghiere i suoi cari che
aveva perduto senza avere avuto neanche il tempo di conoscerli.
Restia a parlare di sé, non
capivo se per pudore o per diffidenza, era votata alla rassegnazione e alla
malinconia.
Risparmiava
su tutto perché aveva patito la fame e conservava sempre qualcosa per
l’indomani preoccupata com’era della sopravvivenza e del non si sa mai come va
la vita.
Vestiva
sempre di nero perché aveva subito molti lutti ma il lutto più grande ce
l’aveva nel cuore. Quel cuore incapace
di sganciarsi dal dolore, quel cuore tenuto a bada per mostrarsi forte, quel
cuore recintato per impedire alla gioia di entrarci.
Difficile
era, per lei, lasciare andare le sue mani in un abbraccio o in una carezza e se
la chiudevi tu fra le braccia, rimaneva rigida per non sgretolarsi.
Aveva
quella saggezza tipica delle donne dei suoi tempi, sapeva fare tutto ciò che
era richiesto ad una brava donna di casa ma era dotata anche di una notevole
intelligenza, di cui era consapevole, che
suscitava ammirazione e rispetto in chi la conosceva.
Era
sicura di avere la protezione du Signuruzzu e della Madunnuzza ma sembrava si
lasciasse spingere dalla vita… le cose vanno come devono andare, chi nasce
sfortunato muore sfortunato… chi poco
parlò mai si pentì.
Ed
io mi sono pentita di non averla mai capita abbastanza e di essermi sempre
staccata troppo presto dagli abbracci che le offrivo e che lei dosava di tempo.
Ora so che avrei dovuto prorogarli per dare ai
suoi sentimenti la possibilità di spezzare le sbarre della prigione in cui
erano soffocati.
O ME' PAISI - Alfredo Lando
SETTEMBRE - Giovanni Rigoli
settembre
Sorpresa si settembre chi
porti?
Chi travolge!
Che strano … nella vita
quanto credi non vale!
L’onestà è un dubbio.
Un giorno, il secondo dopo il
ritorno,
e non fu più quella di prima.
Chi raccontò? Chi raccontò
sbagliato?
E’ un dubbio assurdo o non fui
mai capito?
Né lo so, né lo saprò mai!
Sorpresa di settembre ora sei
muta;
la mia favella spezzi col
silenzio,
le mie speranze fai morir pian
piano …
tu mi travolgi, non mi dai una
mano.
Non hai capito che chiedevo
aiuto
e mi hai lasciato dentro un
labirinto
senza più luce, sconfortato,
vinto!
Giovanni Rigoli
Antiche opere in abbandono LE FONTANE DI MESSINA Si trovi il modo di restituirle ai cittadini - Nino Algeri
LE FONTANE DI MESSINA
Si trovi il modo di restituirle ai
cittadini
Nino Algeri
I cambiamenti, cui sono sottoposte le opere d’arti, possono
essere di due tipi: atmosferici o politici.
Desidero farvi notare come i cambiamenti politici, più di
quelli atmosferici, abbiano colpito molti beni architettonici della città di
Messina, vedi il degrado che si vede in giro, e si sono accaniti principalmente
su una delle fontane più antiche della città.
Essa dopo quasi tre
secoli si trova sempre nello stesso sito, ma in condizioni molto
differenti.
La fontana di cui desidero parlarvi è <La
fontana del Lauro>.
Nella Rotonda di San Francesco di Paola,anticamente chiamata“Campo del Santo Sepolcro”, perché lì
si trovava sin dal XII secolo, la chiesa
del Santo Sepolcro, retta dai monaci Benedettini di Monreale, era
posta una monumentale fontana come si può vedere dalla foto.
LARGO SAN FRANCESCO -
Antica fontana del Lauro
Sorge il dubbio che la fontana
possa essere la stessa di quella citata da Michelis Platiensis nella «Historia Sicula» con la denominazione di “la funtana di lauru”, a
proposito dello sbarco nella zona di due galee pisane del Conte di Novara, Matteo
Palizzi, che ritornava dall’esilio nel 1348.
Caio Domenico Gallo la data un po’ più
tardi, infatti, ci riferisce di una “concessione che avrebbe fatto il Senato
messinese il 6 Marzo 1514 a Giov. Giacomo di Cutelli di questa contrada per
tarì sei l’anno, per fabbricarvi una fornace e costruire una fonte”.
G. La Farina nella sua opera “Messina
nell’800” riporta
l’iscrizione posta su una lapide datata 1724 “.…..
la quale era in un fonte vicino la Chiesa di S. Francesco di Paola”,
eccola:
D.
O. M.
IMPERANTE CAROLO VI.
VICEREGNANTE COMITE DE PALMA
GUBERNANTE CIVITATEM COMITE DE WALLIS.
P.
P. P.
Vt aCtIonIbVs nostrIs IVste proCeDaMVs
(Se si prendono le lettere maiuscole dell’ultimo rigo e si mettono
in ordine secondo il valore che avevano per i romani dal valore più alto al più
basso abbiamo: MDCCVVVVIIII cioè 1724)
questa lapide era probabilmente
inserita sulla fonte stessa.
Nel 1884 vi furono collocati per ornamento i cosiddetti “Quattro Cavallucci” realizzate
su progetto dell’architetto Gaetano Ungaro, dallo scultore catanese Giovan Battista
Marino nel 1742, che avevano fatto parte delle altrettante fontane site
nell’antica piazza di Santa Maria La Porta (oggi Largo Seguenza), si trattava di puttini cavalcanti
dei cavallucci all’interno di vasche ovali.
In seguito per realizzare il Lungomare, la Fiera e il
serpentone per l’imbarco delle auto sulle navi private, i Cavallucci furono temporaneamente rimossi e depositati nel
recinto dell’ex Gazometro da dove, in seguito, presero il volo per una “destinazione
ignota”.
È impressionante
e fa effettivamente pena vedere una delle più antiche fontane di Messina che
nel passato è stata meravigliosa a osservare, e che ancora esiste sempre nello
stesso posto, ma che, forse per interessi privati, forse perché consumata dal
tempo, forse per l’incuria e il vandalismo di una minoranza di cittadini, è
ridotta, nel massimo degrado, uno scheletrico moncherino ricettacolo di
rifiuti.
L’IMPENETRABILE MATASSA DELL’OMICIDIO BARATTA - Giuseppe Salpietro
Giuseppe Salpietro
E’ scontato che rispetto alla
programmazione dei tempi recenti, la TV negli anni Sessanta offriva ai
telespettatori un limitato e ripetitivo palinsesto. Intanto, bisognava aspettare fino alle 17,30 per vedere
finalmente animarsi il monitor con la “TV dei ragazzi” e poi, dopo il
seguitissimo telegiornale delle ore venti e l’immancabile Carosello, seguiva
una programmazione ripetitiva, ma per i tempi straordinariamente soddisfacente.
Il
lunedì ed il mercoledì erano certamente le serate più attese, destinate alla
messa in rete di film che ci facevano sgranare gli occhi davanti al cinescopio,
totalmente immersi nelle scene di epici lungometraggi rigorosamente in bianco e
nero. L'immagine a colori, di cui già si favoleggiava una diffusione capillare
in America, sarebbe arrivata in Italia solo a partire dalla metà degli anni
Settanta dopo interminabili prove tecniche, che ci mostrarono sullo schermo
prima perenni immagini fisse composte da strisce verticali di diversi colori
accompagnate da un sibilo mono-tono che sembrava la sirena di una fabbrica, e
poi, quelle non proprio avvincenti registrate in uno zoo, in una cucina ed in
un negozio di stoffe coloratissime.
Un
appuntamento settimanale imperdibile, anche perché non esistevano molte
alternative, era TV7 con la sua sigla a tromba che sembrava l’adunata, trasmissione
settimanale di inchieste giornalistiche sviluppata con un occhio particolare al
sociale.
Avevo già sentito parlare in
famiglia del caso Spanò, ma una sera restai pietrificato, quando in uno di
questi servizi ambientato nella fortificazione costiera di Porto Azzurro nell'Isola
dell'Elba, poi diventò carcere di massima sicurezza dove al tempo erano reclusi
gli ergastolani, alcuni “sepolti vivi” furono intervistati per raccontare ai
telespettatori le loro storie di vita.
Sfilarono innanzi alla telecamera,
ritengo, una decina di detenuti che dichiararono pacatamente la loro colpevolezza
e l’accettazione di una pena loro inflitta che sostanzialmente era ritenuta
giusta rispetto all’errore commesso, che normalmente si era sostanziato in uno
o più atti omicidiari. Manifestarono quindi, la consapevolezza che
il loro infelice stato, non era ad altri addebitabile, ma alle loro turpi
azioni.
Uno di loro no!
Uno recitò fuori tono e fuori dagli
schemi imposti dal rituale televisivo.
Era Antonino Spanò, ex carabiniere e
poi campiere, condannato per l’omicidio del noto possidente Antonio Baratta
avvenuto nelle campagne di Ucria all’inizio dei mesi autunnali, che si
disperava con le lacrime agli occhi, gridando agli italiani d’avanti alla
telecamera la propria innocenza.
La
complessa vicenda di quello che si profilò in seguito come un assurdo errore
giudiziario, si colloca temporalmente nell’immediato dopoguerra quando ad
Ucria, tra le ore 21.00 e le 21.30 del 4 ottobre 1945, tre malviventi a volto
coperto, compartecipi del medesimo disegno criminoso, irruppero in una casa di
campagna spararono un solo colpo di moschetto che non lasciò scampo all’anziano
avvocato Francesco Baratta.
Baratta, come ogni anno, si trovava
nella contrada Marzana di Ucria – raggiungibile percorrendo la Strada
Provinciale Ucria / Raccuia -, per curare gli affari della terra, e considerato
il periodo degli eventi che segue di poco la raccolta delle nocciole, si
presume che conclusa la vendita del prodotto, era prossimo a fare ritorno nella
città di Palermo dove normalmente risiedeva.
La casa dei Baratta di località
Marzana visibile da ogni contrada del paese di Ucria guardando là dove sorge il
sole, nonostante il successivo abbandono, appare ancora oggi un bel palazzotto
signorile a due elevazioni con copertura in tegole. Luogo che appare a vista
equidistante dai due centri montani di Ucria e Raccuja - in linea d’aria a qualche chilometro appena dai due centri abitati -,
nel bel mezzo di fitti noccioleti dal colore estivo verde intenso.
I tre, che pare avessero in animo di
compiere una rapina, ma poi nulla asportarono dall’immobile considerato il
precipitare degli eventi, riuscirono ad introdursi nell’abitazione di campagna
con uno stratagemma. Infatti, per farsi aprire dalla stessa vittima costrinsero
il suo campiere Sebastiano Martelli che riposava con la moglie in un locale
attiguo, a bussare all’uscio già chiuso per la notte del ricco proprietario
terriero che, seppur per natura
diffidente, senza alcun sospetto aprì al suo dipendente.
Antonino Spanò, nativo di San Piero
Patti, ma conosciutissimo anche ad Ucria dove aveva lavorato per alcuni anni
alle dipendenze proprio dei Baratta, dopo una dura giornata di lavoro nelle
campagne, aveva fatto rientro attorno alle ore 19.30 nella propria modesta
abitazione di località Sambuco nel Comune di San Piero Patti in quella che
viene ricordata come una serata autunnale caratterizzata da un clima
particolarmente avverso.
I rapporti di Antonio Spanò con
Francesco Baratta, non erano rimasti cordiali, incrinati negli anni precedenti
da vicende legate alla comproprietà di un’asina reclamata dal Baratta e che
quindi, dopo il licenziamento, il campiere era stato costretto a restituire
ricevendone la metà del suo valore di stima.
Avviate le indagini e gli
interrogatori per quell’omicidio che vedeva vittima un esponente di una delle
famiglie più in vista e potenti del territorio nebroideo, Sebastiano Martelli,
che dapprima sostenne di non aver riconosciuto nessuno dei malviventi, indicò
poi, quale membro del gruppo nonché esecutore materiale l’ex campiere Antonino
Spanò al quale, a suo dire, era stato letteralmente strappato dalla vittima
quanto utilizzava per travisare il suo volto.
Il
malfattore pare indossasse una divisa militare della quale, nella concitazione
del momento, perse un bottone.
Una giubba dello stesso tipo fu in
effetti ritrovata senza bottoni a casa di Spanò, ma non era difficile,
considerati i tempi, che in ogni casa ve ne fosse una. I pastori poi la
ritenevano particolarmente adatta per la resistenza del tessuto.
All’arresto del presunto colpevole
seguì un rapido e lacunoso processo che si concluse il 21 maggio del 1947.
Sostanzialmente
i moventi addotti furono individuati nel rancore personale di Spanò verso
Baratta riconducibile al licenziamento ed alla spartizione dell’asina.
La
Corte d’Assise di Messina condannò quindi Spanò alla pena dell’ergastolo
nonostante fosse stato certamente visto da tanti suoi paesani fare rientro
nella propria abitazione di San Piero
Patti, quindi a molti chilometri dal luogo del delitto, un’ora e trenta prima
del fatto di sangue.
I giudici considerarono schiaccianti
le testimonianze dell’anziana domestica del possidente ucciso, che però
ritrattò in punto di morte, e del figlio di Martelli – fidanzatino osteggiato
della figlia di Spanò – il quale sostenne, senza addentrarsi nelle specifiche
circostanze che caratterizzavano il percorso da compiere in ore notturne e sotto
la pioggia insistente, che la distanza tra Sambuco ed Ucria poteva colmarsi a
piedi in circa un’ora.
Non fu mai disposto un esperimento
giudiziario che avrebbe potuto stabilire con certezza la durata del tempo di
percorrenza dalla casa di Spanò a quella di Marzana.
Negli anni Sessanta, il giovane
giornalista Giuseppe Messina a seguito di una specifica richiesta pervenutagli
direttamente da Salvatore, 32 anni, il più anziano dei figli di Spanò che lo
aveva avvicinato a Patti, ponendosi contro la volontà di Nino Amadori -
padovano suo direttore alla Tribuna del Mezzogiorno -, che, dopo avere
consultato un legale gli aveva posto imperiosamente il veto, coraggiosamente e
senza farne preventivamente parola con alcuno, ripropose il caso rimettendo in moto la macchina giudiziaria.
Rischiò il licenziamento, ma poi le
vendite s’impennarono e tutti dimenticarono presto la grave insubordinazione.
Nel maggio del 1965, infatti, con un
articolo pubblicato su La Tribuna del Mezzogiorno dal titolo “Forse un
innocente da vent’anni in carcere”, il giovane cronista grazie anche al
successivo intervento degli illustri difensori di Spanò, Tullio Trifilò di Capo
d’Orlando e del senatore Giovanni Leone - divenuto in seguito Presidente della
Repubblica nel ’71 e nel ‘78 indotto a dimettersi travolto dagli scandali e da
fatti conclamati di nepotismo -, riesce
dopo 4 anni a fare liberare e riabilitare Spanò.
La perseveranza del cronista si
traduce, dopo già 18 anni di reclusione, nella richiesta, per mano dei
difensori, alla Corte d’appello di Messina della riapertura del caso ( 12
luglio 1965) sulla base di fatti nuovi che vengono ritenuti validi e
sufficienti.
Dopo circa 7 mesi, la Suprema Corte
concesse la libertà provvisoria d’ufficio all’ex campiere che ritornò a San
Piero Patti in attesa del processo di revisione e finalmente nel giugno del
1969, a distanza di 25 anni dall’arresto, Antonino Spanò tornò definitivamente
libero privo di ogni macchia.
Cala
il sipario sulla lunga, intrigata e per certi versi mai chiarita vicenda della
tragica morte del possidente Baratta per mani assassine di un uomo certamente
conosciuto dalla stessa vittima e dai suoi dipendenti lì presenti.
In Tribunale, alla lettura del
dispositivo di assoluzione l’ex carabiniere fu colto da una crisi di pianto
irrefrenabile, abbracciando in segno di gratitudine per primo, il giovane
giornalista Giuseppe Messina artefice della sua innocenza.
Antonino Spanò ha vissuto gli ultimi
anni della sua vita svolgendo nel piccolo centro nebroideo di San Piero Patti
la professione di messo notificatore, lavoro assegnatogli dal sindaco di allora
Tino Santi Natoli.
Questo caso, che costituisce uno dei
più gravi ed inammissibili sbagli compiuti dalla giustizia nel secolo scorso, è
stato raccontato dallo stesso giornalista Giuseppe Messina nel suo libro presentato
nel 2007 nella città di Messina: “Il caso Spanò”, recante il seguente
emblematico sottotitolo, “Il più grave errore giudiziario italiano”.
Ebbi
modo di conoscere Spanò alcuni anni dopo la sia liberazione proprio nella
Piazza del suo amato paese San Piero Patti, conservo ancora il ricordo di un
uomo anziano infinitamente cortese e apparentemente straordinariamente sereno.
La riconquistata libertà coniugata all’unanime rispetto manifestato dalla
società civile verso un uomo che era stato, suo malgrado, protagonista di una
così penosa vicenda, avevano indubbiamente generato intimo appagamento.
Amaro, intimo appagamento.
Il
vero omicida non fu mai individuato, anche se restano inesplorate alcune
possibili ipotesi sempre basate su forti rancori personali e su vite
brutalmente ed inutilmente spezzate.
Ma questa è un’altra storia.I “CARI LUOGHI” OVE RISUONA LA VOCE DI JOLE DE MARIA - Eliade Maria Grasso
I “CARI LUOGHI” OVE
RISUONA LA VOCE DI JOLE DE MARIA
Eliade Maria Grasso
L’amore per chi ama la propria terra
si porta sempre dentro il cuore, anche se si va in giro per il mondo per essere
acclamata nei maggiori teatri.
Questa
è stata la vita della cantante lirica Jole De Maria nata nel 1929 ad Alcara Li
Fusi, e profondamente legata a Galati Mamertino, il luogo ove nacque la
propria madre nel 1889. Viaggiò molto per calcare le scene dei più importanti
teatri lirici italiani e stranieri, applaudita anche oltreoceano; ha vissuto a
Roma e in Argentina; ma poi è ritornata sui Nebrodi col marito, il musicologo
Silvano Nicolai, per ritrovare e respirare le proprie origini.
Jole iniziò la carriera da giovanissima quale
vincitrice del concorso lirico di Spoleto, un sicuro trampolino di lancio per
le giovani promesse della lirica in quanto la vincita di questo Concorso dava
accesso al Corso di perfezionamento del Teatro dell’Opera di Roma. Da lì in poi
si è esibita nei maggiori teatri italiani (Teatro Massimo Bellini di Catania,
Teatro Massimo di Palermo, Teatro dell’Opera di Roma, Teatro Petruzzelli di
Bari) ed esteri (Teatri dell’Opera di Lugano, Dublino, Belfast, Il Cairo ed
altri). Diretta dai maggiori direttori d’orchestra quali Ziino, Serafin,
Molinari Pradelli, De Fabritiis, Metha, Vitali, Gui, Bellezza, Scaglia, La
Rosa, Parodi Patanè, Erede.
Jole
raggiunge il successo cantando da mezzosoprano,
il suo timbro naturale, ed esibendosi nei ruoli più impegnativi richiesti al
suo registro di voce. Ai ruoli teatrali affiancava un’intensa attività
concertistica nelle sale ed emittenti radio più prestigiose. Resta
memorabile la sua interpretazione del ruolo di Azucena de “Il Trovatore” di G.
Verdi testimoniata dalle critiche musicali delle maggiori testate
giornalistiche di quegli anni.
La
straordinarietà dell’arte di Jole De Maria è data dalle sue doti vocali fuori
dal comune. Quando si trasferisce in Argentina, interrompendo la sua
carriera, si dedica allo studio del proprio organo vocale sviluppando una
tecnica che le ha permesso di rivestire ruoli impervi per ogni tipo di voce. La
prodigiosa estensione vocale, la duttilità del timbro, l’intensità drammatica
equilibratamente dosata per adeguarla alla vocalità del brano fa sì che Jole De
Maria arricchisca il proprio repertorio con aria di Soprano drammatico, lirico
e leggero per tornare con disinvoltura alla vocalità originaria di mezzosoprano
e scendere ancora nel registro di contralto. La sua laringe conteneva tutte le
voci.
Le
registrazioni delle sue maggiori esibizioni sono raccolte in cinque CD dal
titolo Jole De Maria Un’ugola sette voci perché tanti sono i
timbri che, a secondo il repertorio riesce a variare. Jole De Maria cambia
vocalità repentinamente, dalla Cieca
de La Gioconda Di Ponchielli a Musetta
de La Bohéme pucciniana, e ascoltando la “sua” Casta diva” non si immaginerebbe mai che, poco prima, la sua voce
era tra i ceppi della verdiana
Azucena. Il Maestro Rolando
Nicolosi, suo alter ego pianistico e
testimone degli sviluppi che la De Maria apportò allo studio della vocalità, documenta
con rigore tecnico le esecuzioni dei brani in una guida all’ascolto di facile
fruibilità anche per chi non è avvezzo all’ascolto del repertorio operistico.
Jole
De Maria finisce il suo cammino terreno a Fonte Nuova (Roma) il 23 maggio 2007.
L’associazione
culturale Arcipelago, con sede a Fonte Nuova e presieduta dalla dott.ssa
Eleonora Vicario tra le tante attività artistiche e scientifiche a favore
di associazioni umanitarie e della ricerca medica, dal 2013 bandisce con
cadenza annuale un Concorso lirico internazionale intitolato a Jole De Maria.
Per informazioni e per l’acquisto dei CD è possibile consultare il sito www.assoarcipelago.info.
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