lunedì 15 febbraio 2016

NOTERELLE UCRIESI 3 DIVAGAZIONI ONOMASTICHE: DA NOMI A SOPRANNOMI. *NINO PINZONE “PALAGUNIA”.*

NINO PINZONE “PALAGUNIA”.
NOTERELLE UCRIESI 3
DIVAGAZIONI ONOMASTICHE: DA NOMI A SOPRANNOMI.
Coomu? Càvuriu?” Con queste parole reagì sorpresa mia nonna, “ ’a za Francisca ‘a Manuela”, quando, su sua richiesta, mio padre le palesò l’intenzione di imporre il nome di Claudio al terzo figlio, ormai prossimo a venire alla luce. Beninteso se fosse stato maschio, chè altrimenti il nome, secondo tradizione, era già bello e pronto, quello della nonna paterna, Francesca. Se ne era discusso parecchio in famiglia e mi ricordo che anche io, allora novenne, e mio fratello Luigi, di sei anni, avevamo cercato di interferire nella scelta proponendo qualche nome. Adempiuti i doveri verso la famiglia e la tradizione con l’imposizione dei nomi dei nonni paterno e materno (Nino Pinzone “Palagunia” e Luigi Murabito “Fruntinu”) ai primi due figli, i miei erano ormai liberi di sbizzarrirsi e di scegliere per il nascituro il nome che volevano. Erano anni, quelli a cui mi riferisco, in cui cominciavano a diffondersi, un po’ ovunque in Sicilia, nomi più nuovi, più moderni e ricercati anche nelle fasce sociali medie e meno elevate. Di lì a non molto ci sarebbe stata una vera e propria rivoluzione: tutti alla ricerca di nomi più alla moda, interpretati spesso come segno di emancipazione culturale, sociale ed economica. Fu soprattutto l’intensificarsi dell’emigrazione favorito dal fortissimo processo di industrializzazione e di urbanizzazione che stava allora vivendo l’Italia, che contribuì non solo alla rottamazione o all’italianizzazione  di molti nomi tradizionali  (il fenomeno per cui pian piano tutte le Ciccine divennero Franca, le Concettine Cetty o Conny, le Genoveffe Genny, le Peppine Giusy, le Terese Terry, le Carmele Carmen, le Rosine Rosita, i Calojini Gerry, i Bastiani Seby o Seba…), ma anche al diffondersi di nomi più nuovi ed esotici. Né minore fu il peso esercitato in tal senso dai mass-media. Cominciarono così a fioccare nomi come Jessica, Debora, Ylenia, Natascia, Catiuscia, Christian, Sacha... La ventata modernizzante spinse anche alcuni, più estrosi, a coniare nomi nuovi, inventati, ricavati dalla fusione di altri nomi (per intenderci, un po’ come con Marisa, frutto della fusione e contrazione di Maria e Teresa).
Per quanto riguarda mio fratello, la scelta si orientò, alla fine, su due nomi non proprio usuali nell’Ucria della metà degli anni ’50 del secolo scorso, precisamente quello di Claudio e (ma in subordine) quello di Marcello. A orientare decisamente la scelta per questo secondo nome (che fu peraltro il nome del santo del giorno della nascita, il 16 gennaio) contribuì non poco il disorientamento di mia nonna, dovuto non a sordità o rimbambimento senile, come si potrebbe erroneamente supporre, bensì alla scarsa o inesistente familiarità col nome suddetto. Quello di Claudio non rientrava, infatti, in quella ventina di nomi caratteristici della tradizionale onomastica ucriese, mille volte ripetuti di generazione in generazione (i vari Ninu, Pippinu, Turi, Vicenzu, Bastianu, Calojinu, Saru, Ciccinu, Carmelu, Fulippu, Signurinu, Micu, Santinu, Giuvanni, Petru, Nunziatu, Pavulu, Luvigi, Micheli, Guidu, Vasili….) e probabilmente era la prima volta che mia nonna, poveretta, lo sentiva pronunciare. Il suo livello culturale, come quello della maggior parte degli appartenenti al ceto della maestranza o a quello dei contadini, era piuttosto basso. Aveva frequentato, in anni in cui la scolarizzazione di massa era soltanto nella mente di Dio, fino alla terza elementare, prima di abbandonare. Sapeva però leggere e scrivere, sia pure in modo un po’ sgrammaticato, cosa che le consentì di intrattenere regolari rapporti epistolari coi figli sparsi per il mondo: Emanuele ad Albenga, Turi a Perth, in Australia, e poi a Genova, Anna e Pippinu a Messina. Solo Ciccinu, il maggiore, infatti, era rimasto ad Ucria. Me la ricordo ancora, dopo aver finito le faccende domestiche (“i survizza”), col ‘tuppo’ appena rifatto, seduta al tavolino o, preferibilmente, al ripiano della vecchia Singer, nel soggiorno della casa di via S. Croce, davanti al balcone per vederci meglio, con carta, penna e calamaio, i vecchi occhiali d’osso inforcati sul naso, a vergare faticosamente parole  e frasi stentate, appena sufficienti per dare ai figli le essenziali notizie sullo stato di salute suo e dei familiari e per informarli sulle novità, belle o brutte, della vita del paese, a cui tutti continuavano da lontano a pensare con grande nostalgia.
Non si meraviglino i miei più giovani lettori nel sentire dell’episodio da me riferito, che è molto utile per farsi un’idea meno approssimativa del modo di vivere e di intendere dei nostri antenati. Anche prima qualche nome nuovo talvolta spuntava, frutto di estemporanee letture, dell’ascolto della radio, di qualche rada esperienza fuori dai confini del paese, come poteva essere il servizio militare (a… Cuneo). Parlando in generale e uscendo dallo stretto ambito paesano e regionale, spesso, in mancanza di altre risorse, per scegliere i nomi si ricorreva, in passato, all’uso, già tipico degli antichi romani, di chiamare i figli col numero ordinale (Primo, Secondo, Terzio,  Quinto, Sesto, Settimio, Ottavio, Decimo),  e non era infrequente il ricorso al calendario (come fu in parte per il nome di mio fratello Marcello). Spassosi gli equivoci che a volte si verificavano in quest’ultimo caso, come quello che si racconta di un contadino della bassa Padana che avrebbe battezzato un figlio col nome di Piovipapa perché aveva letto nel calendario che il santo del giorno in cui era nato era San  Pio VI Papa.
Quando erano troppo inusuali, o declinati un forme inusuali (accrescitivi, diminuitivi, vezzeggiativi…) specialmente nelle fasce meno evolute della popolazione ucriese, i nomi erano accolti con sorpresa, suscitavano meraviglia e a volte ironia, colpivano e impressionavano in maniera tale che si trasformavano, per un fenomeno assimilabile alle figure retoriche dell’antonomasia o della patronimia, addirittura in ‘nciuria, soprannome, come mostrano numerosi casi riscontrabili nell’onomastica (anzi nella …soprannomastica) ucriese. Lo stesso soprannome di mia nonna e dei suoi fratelli (“i Manueli”) era in realtà il nome del padre, ‘mastru Manueli Casella’, sarto di professione. Era nato costui proprio nel 1860, anno fatidico nella storia dell’Italia risorgimentale, e il padre, Giacinto Casella, sarto anche lui, spinto dalle sue idee libertarie e dall’entusiasmo del momento della liberazione e della nascita della nuova Italia, esploso anche ad Ucria, si convinse a dare al neonato, con gesto che colpì evidentemente i compaesani, il nome di Vittorio Emanuele, il padre della patria, uno degli artefici, accanto ai vari Garibaldi, Mazzini e Cavour, della raggiunta unità. Di (Vittorio) Emanuele ce ne sarebbero stati diversi tra i suoi discendenti, visto che quattro dei suoi nipoti vennero così chiamati (Emanuele Pinzone, di Francesca,  Emanuele Rigoli, di Domenica, Vittorio Emanuele Casella, di Luigi; e Vittorio Casella, di Salvatore). Devo confessare, a tal proposito, che suscita in me una certa tristezza rilevare come nella generazione successiva, per via delle circostanze e del venir meno di tradizioni ritenute ormai antiquate, il nome si sia purtroppo perso nella famiglia.
Il teorema prima annunciato, secondo cui nomi inusuali si trasformavano in soprannomi, potrebbe essere messo in discussione dal fatto che nomi di ucriesi sicuramente strani o ricercati non diedero necessariamente origine a una ‘nciuria, come ci si sarebbe aspettati. Si pensi che nella vecchia onomastica paesana si riscontrano nomi come Scipione, Crisostomo, Achille, Attanasio, Teodoro, Liborio, Placido, Agostino, Policarpo. La spiegazione del fatto che nessuno di questi è diventato soprannome è semplice e va ricercata nel fatto che tali nomi erano prerogativa dell’alta borghesia cittadina, in genere poco toccata dai soprannomi, da un lato in segno di rispetto e di timore reverenziale, dall’altro perché i soprannomi per loro erano inutili, nella misura in cui l’individuazione di singole famiglie o di singoli personaggi, che è lo scopo principe del soprannome, era facilitata dal ridotto numero complessivo dei nuclei familiari con certi cognomi (Minissale, Baratta, Galvagno, …) e dei loro componenti. Preferibilmente, per indicare i membri di tali famiglie si faceva tra l’altro ricorso al titolo professionale (l’avvocatu, ‘u dutturi,’ u farmacista, ‘u maestru…).
A riprova di quanto prima scritto, si riporta qui un nutrito elenco, completato attingendo alla memoria mia o di qualche amico[1], e, ancor più, a una corposa raccolta di ‘nciurie messa assieme con certosina pazienza da Francesco Pinzone, mio padre[2]. Si noterà come alcuni nomi, nel diventare soprannomi, siano rimasti, al di là della sicilianizzazione, inalterati. Altri invece si sono in qualche modo trasformati, come quelli che hanno assunto la terminazione  –inu, -ina, -ini (Marchinu, Cicchinu, Vitinu, Pirrina, Giòrgina) o quella –azzu, -azza (Bastianazzu, Michilazzu, Paulazzu, Carminazzu). Caratteristica di altri è invece una forma di diminuitivo (Anciulinu, Binidittuzzu, Carmineddu, Gingillinu, Marchiulinu, Marcillina, Marietta, Minicheddu, Niculetta, Ninetta, Ninettu, Pasqualeddu, Pitruzzu).
Va notato che il fenomeno sembra essere, in riferimento all’area nebroidea di competenza, esclusivo di Ucria, a giudicare almeno dal fatto che ‘nciurie derivate da nomi propri non sono riscontrabili negli elenchi, ancorchè incompleti, compilati da mio padre per alcuni centri viciniori, come Sinagra, Floresta, Ficarra, S. Fratello e altri. Non sarei alieno dal leggere nella peculiarità ucriese dell’usanza un segno di mentalità poco elastica e conservatrice piuttosto accentuata nei nostri antenati.
Ma eccolo finalmente, in ordine alfabetico, l’elenco (che non ha pretese di esaustività ed è, anzi, aperto a suggerimenti, aggiunte e correzioni del caso):

Abramu, Alfiu, Anciulinu, Arasu (da Orazio?)
Bastianazzu, Bilardu (da Berardo?), Binidittuzzu
Canniloru, Carminazzu, Carmineddu, Ciccu/Cicchina, Diana (?)
Franz, Furtunatu 
Gesualdu, Giancola (da Gian Nicola?), Gingillinu, Gioia (?), Giòrgina/u, Giorgiu, Giuliu, Giustina
Jachinu,
Libertu, Linu,  Liscianniru  (da Alessandro), Lucianu, Luciu
Manueli, Marcantoni, Marchinu, Marchiulinu, Marcillina, Marcioni (da Marco?), Marianu, Marietta, Martinu, Matteu, Meli, Michilancilu, Michilazzu, Minicheddu
Natali, Niculetta, Ninetta/-ina, Ninettu
Pasquala, Pasqualeddu, Paulazzu, Peppantoni, Petrantoni, Pifaniu (da Epifanio), Pirru/Pirrina, Pitruzzu, Policarpu, Pulidoru
Reginotta  (da Regina), Ricu (da Enrico?)
Sadoru/Sidoru (da Isidoro), Scimuni  (da Simone?), Sergiu, Simuni, Stefanu,
Valeriu, Vitini (da Vito).

In altre ‘nciurie il nome non è solo, ma si accompagna, a volte in fusione, con un altro nome proprio, con aggettivi, con apposizioni e forme appositive e persino con forme verbali:

Amatu Liu, Brasi Liuni, Caloriu Pinocchiu, Carminu Francia, Donna Rosa, Enzu Catalammenzu[3], Fravvicenzu (Frà Vincenzo), Mastru Jacintu, Mastru ‘Ndria, Mastrugnaziu, Mastruntoni, Masu Barbuzza, ‘Ncoccia Marantona, ‘Ncugna Micheli, ‘Nnachiti Peppa, Pasquali cu ‘a corda, Patrignaziu  (Padre Ignazio), Stefanu ‘u pazzu, Vanni Sciroccu, Za Giuvanna, Zu Caloriu Firanti, Zu Rusariu Puntarossa.

A proposito di nomi, mi piace concludere con un paio di cantilene (qualcuno le ha definite tiriteri supra li nomi)  spesso usate in passato quando si voleva scherzare o prendere in giro qualcuno che aveva quel nome:
-          Catarina vascia vascia/Metti ‘u pedi supra a cascia./Vadi a musca cavaddina e muzzica a Catarina.
-          Rosetta pigghia ‘u sciallu/chi t’arriva ‘u maresciallu.
A queste due, riportate da mio padre nell’elenco delle ‘nciurie, perché evidentemente indirizzate in maniera precisa a personaggi del paese, si potrebbero aggiungere anche queste (e naturalmente tante altre che non ricordo o che non ho mai sentito):
-          Marianna passa ‘ddabbanna/Pigghia ‘u cuteddu e scanna a to nanna.[4]
-          Ninu Nanu/ supra ‘u cantaranu/cu na cannila a manu/ chi paria un sacristanu.
-          Ninu Nanu/Mastru Bastianu/quattru e cincu ‘nto pagghiaru..
-          Mastr’Antuninu lu porcu scintinu, jiu ‘nta la chiazza p’un sordu di vinu.[5]
-          Focu di vespa/di donna Signurina./Giuvanni, Giuvanni!/ Passa ‘ddabanna e pigghia lu fasuni!/ ‘Mmazza ‘a ‘sta vespa chi mi muzzicau ‘u cuddizzuni.[6]
Le divagazioni su nomi e soprannomi ucriesi potrebbero continuare a lungo e se ne avrò l’estro e la voglia lo farò in una prossima noterella. Ma per stavolta, rubando le parole al sommo Virgilio, sat prata biberunt.




[1] Ringrazio Carmelino Rigoli e Bastianino Crisà per gli utili suggerimenti datimi in occasione di una recente escursione in fuoristrada a Cartulari.
[2] Della raccolta esiste un dattiloscritto che porta il titolo di ‘Nciuria e supranciuria. Pecchi. Nel frontespizio si possono leggere alcune righe, vergate a mano dall’autore, che così recitano: “Sono tutti qui i miei paesani, coi loro pecchi, coi loro pregi. Il soprannome potrebbe servire a descriverli, ma spesso non corrisponde più al vero motivo per cui furono appioppati”.
[3] Evidente il prestito da una cantilena, non so se conosciuta anche ad Ucria, che così suonava: Enzu un rotulu e menzu/’a pasta cu sucu/ e patati ‘nto menzu.
[4] Nella zona di Catania il testo era diverso e più lungo: Marianna passa ‘ddabbanna/fatti ‘u tuppu ca veni to nanna/ e fattillu bellu, pulitu/ ca stasira veni ‘u to zitu.
[5] Sono in realtà i versi iniziali di una lunga poesia del poeta ucriese Ninu Corda.
[6] Era cantata sul motivo del noto Inno dei giovani fascisti (“Fuoco di Vesta che fuor del tempio irrompe...”) e, come mi suggerisce mio fratello Luigi Pinzone, sarebbe stata composta dall’Ing. Antonino Ioppolo, sindaco di Ucria nel secondo dopoguerra, in risposta a versi caustici e maldicenti al suo riguardo, fatti circolare da “donna Signurina ‘a Spirrinchia” (chi la ricorda sa che per lingua non era seconda a nessuno). Purtroppo la canzoncina di donna Signurina credo sia andata perduta.

1 commento:

  1. "Notarelle", le intitola Nino Pinzone, e conclude con un verso di Virgilio: "sat prata biberunt" che tradotto liberamente suona "Vi ho annoiato a sufficienza". E invece no, caro Nino, mi hai appassionato, e non poco. Per gli stornelli, cantati sempre a notte fonda, al di là di "donnasignurina",donna di paglia, occorre fare riferimento alle rivalità politiche, a Ucria, sempre aspre e colorite. Ciao, ciao

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