NOTERELLE UCRIESI 3
DIVAGAZIONI
ONOMASTICHE: DA NOMI A SOPRANNOMI.
“Coomu? Càvuriu?” Con queste
parole reagì sorpresa mia nonna, “ ’a za Francisca ‘a Manuela”, quando, su sua
richiesta, mio padre le palesò l’intenzione di imporre il nome di Claudio al
terzo figlio, ormai prossimo a venire alla luce. Beninteso se fosse stato
maschio, chè altrimenti il nome, secondo tradizione, era già bello e pronto,
quello della nonna paterna, Francesca. Se ne era discusso parecchio in famiglia
e mi ricordo che anche io, allora novenne, e mio fratello Luigi, di sei anni,
avevamo cercato di interferire nella scelta proponendo qualche nome. Adempiuti
i doveri verso la famiglia e la tradizione con l’imposizione dei nomi dei nonni
paterno e materno (Nino Pinzone “Palagunia” e Luigi Murabito “Fruntinu”) ai
primi due figli, i miei erano ormai liberi di sbizzarrirsi e di scegliere per
il nascituro il nome che volevano. Erano anni, quelli a cui mi riferisco, in
cui cominciavano a diffondersi, un po’ ovunque in Sicilia, nomi più nuovi, più
moderni e ricercati anche nelle fasce sociali medie e meno elevate. Di lì a non
molto ci sarebbe stata una vera e propria rivoluzione: tutti alla ricerca di
nomi più alla moda, interpretati spesso come segno di emancipazione culturale,
sociale ed economica. Fu soprattutto l’intensificarsi dell’emigrazione favorito
dal fortissimo processo di industrializzazione e di urbanizzazione che stava
allora vivendo l’Italia, che contribuì non solo alla rottamazione o all’italianizzazione di molti nomi tradizionali (il fenomeno per cui pian piano tutte le
Ciccine divennero Franca, le Concettine Cetty o Conny, le Genoveffe Genny, le
Peppine Giusy, le Terese Terry, le Carmele Carmen, le Rosine Rosita, i Calojini
Gerry, i Bastiani Seby o Seba…), ma anche al diffondersi di nomi più nuovi ed
esotici. Né minore fu il peso esercitato in tal senso dai mass-media. Cominciarono
così a fioccare nomi come Jessica, Debora, Ylenia, Natascia, Catiuscia, Christian,
Sacha... La ventata modernizzante spinse anche alcuni, più estrosi, a coniare
nomi nuovi, inventati, ricavati dalla fusione di altri nomi (per intenderci, un
po’ come con Marisa, frutto della fusione e contrazione di Maria e Teresa).
Per quanto riguarda mio
fratello, la scelta si orientò, alla fine, su due nomi non proprio usuali
nell’Ucria della metà degli anni ’50 del secolo scorso, precisamente quello di
Claudio e (ma in subordine) quello di Marcello. A orientare decisamente la
scelta per questo secondo nome (che fu peraltro il nome del santo del giorno
della nascita, il 16 gennaio) contribuì non poco il disorientamento di mia
nonna, dovuto non a sordità o rimbambimento senile, come si potrebbe erroneamente
supporre, bensì alla scarsa o inesistente familiarità col nome suddetto. Quello
di Claudio non rientrava, infatti, in quella ventina di nomi caratteristici
della tradizionale onomastica ucriese, mille volte ripetuti di generazione in
generazione (i vari Ninu, Pippinu, Turi, Vicenzu, Bastianu, Calojinu, Saru,
Ciccinu, Carmelu, Fulippu, Signurinu, Micu, Santinu, Giuvanni, Petru, Nunziatu,
Pavulu, Luvigi, Micheli, Guidu, Vasili….) e probabilmente era la prima volta
che mia nonna, poveretta, lo sentiva pronunciare. Il suo livello culturale,
come quello della maggior parte degli appartenenti al ceto della maestranza o a
quello dei contadini, era piuttosto basso. Aveva frequentato, in anni in cui la
scolarizzazione di massa era soltanto nella mente di Dio, fino alla terza
elementare, prima di abbandonare. Sapeva però leggere e scrivere, sia pure in
modo un po’ sgrammaticato, cosa che le consentì di intrattenere regolari
rapporti epistolari coi figli sparsi per il mondo: Emanuele ad Albenga, Turi a
Perth, in Australia, e poi a Genova, Anna e Pippinu a Messina. Solo Ciccinu, il
maggiore, infatti, era rimasto ad Ucria. Me la ricordo ancora, dopo aver finito
le faccende domestiche (“i survizza”), col ‘tuppo’ appena rifatto, seduta al
tavolino o, preferibilmente, al ripiano della vecchia Singer, nel soggiorno della
casa di via S. Croce, davanti al balcone per vederci meglio, con carta, penna e
calamaio, i vecchi occhiali d’osso inforcati sul naso, a vergare faticosamente
parole e frasi stentate, appena
sufficienti per dare ai figli le essenziali notizie sullo stato di salute suo e
dei familiari e per informarli sulle novità, belle o brutte, della vita del
paese, a cui tutti continuavano da lontano a pensare con grande nostalgia.
Non si meraviglino i miei
più giovani lettori nel sentire dell’episodio da me riferito, che è molto utile
per farsi un’idea meno approssimativa del modo di vivere e di intendere dei
nostri antenati. Anche prima qualche nome nuovo talvolta spuntava, frutto di
estemporanee letture, dell’ascolto della radio, di qualche rada esperienza
fuori dai confini del paese, come poteva essere il servizio militare (a…
Cuneo). Parlando in generale e uscendo dallo stretto ambito paesano e
regionale, spesso, in mancanza di altre risorse, per scegliere i nomi si
ricorreva, in passato, all’uso, già tipico degli antichi romani, di chiamare i
figli col numero ordinale (Primo, Secondo, Terzio, Quinto, Sesto, Settimio, Ottavio, Decimo), e non era infrequente il ricorso al
calendario (come fu in parte per il nome di mio fratello Marcello). Spassosi
gli equivoci che a volte si verificavano in quest’ultimo caso, come quello che
si racconta di un contadino della bassa Padana che avrebbe battezzato un figlio
col nome di Piovipapa perché aveva letto nel calendario che il santo del giorno
in cui era nato era San Pio VI Papa.
Quando erano troppo
inusuali, o declinati un forme inusuali (accrescitivi, diminuitivi,
vezzeggiativi…) specialmente nelle fasce meno evolute della popolazione
ucriese, i nomi erano accolti con sorpresa, suscitavano meraviglia e a volte ironia,
colpivano e impressionavano in maniera tale che si trasformavano, per un
fenomeno assimilabile alle figure retoriche dell’antonomasia o della
patronimia, addirittura in ‘nciuria,
soprannome, come mostrano numerosi casi riscontrabili nell’onomastica (anzi
nella …soprannomastica) ucriese. Lo stesso soprannome di mia nonna e dei suoi
fratelli (“i Manueli”) era in realtà il nome del padre, ‘mastru Manueli
Casella’, sarto di professione. Era nato costui proprio nel 1860, anno fatidico
nella storia dell’Italia risorgimentale, e il padre, Giacinto Casella, sarto
anche lui, spinto dalle sue idee libertarie e dall’entusiasmo del momento della
liberazione e della nascita della nuova Italia, esploso anche ad Ucria, si
convinse a dare al neonato, con gesto che colpì evidentemente i compaesani, il
nome di Vittorio Emanuele, il padre della patria, uno degli artefici, accanto
ai vari Garibaldi, Mazzini e Cavour, della raggiunta unità. Di (Vittorio) Emanuele
ce ne sarebbero stati diversi tra i suoi discendenti, visto che quattro dei
suoi nipoti vennero così chiamati (Emanuele Pinzone, di Francesca, Emanuele Rigoli, di Domenica, Vittorio
Emanuele Casella, di Luigi; e Vittorio Casella, di Salvatore). Devo confessare,
a tal proposito, che suscita in me una certa tristezza rilevare come nella
generazione successiva, per via delle circostanze e del venir meno di
tradizioni ritenute ormai antiquate, il nome si sia purtroppo perso nella
famiglia.
Il teorema prima
annunciato, secondo cui nomi inusuali si trasformavano in soprannomi, potrebbe
essere messo in discussione dal fatto che nomi di ucriesi sicuramente strani o
ricercati non diedero necessariamente origine a una ‘nciuria, come ci si sarebbe aspettati. Si pensi che nella vecchia onomastica
paesana si riscontrano nomi come Scipione, Crisostomo, Achille, Attanasio,
Teodoro, Liborio, Placido, Agostino, Policarpo. La spiegazione del fatto che
nessuno di questi è diventato soprannome è semplice e va ricercata nel fatto
che tali nomi erano prerogativa dell’alta borghesia cittadina, in genere poco
toccata dai soprannomi, da un lato in segno di rispetto e di timore
reverenziale, dall’altro perché i soprannomi per loro erano inutili, nella
misura in cui l’individuazione di singole famiglie o di singoli personaggi, che
è lo scopo principe del soprannome, era facilitata dal ridotto numero complessivo
dei nuclei familiari con certi cognomi (Minissale, Baratta, Galvagno, …) e dei
loro componenti. Preferibilmente, per indicare i membri di tali famiglie si
faceva tra l’altro ricorso al titolo professionale (l’avvocatu, ‘u dutturi,’ u farmacista, ‘u maestru…).
A riprova di quanto prima
scritto, si riporta qui un nutrito elenco, completato attingendo alla memoria
mia o di qualche amico[1],
e, ancor più, a una corposa raccolta di ‘nciurie
messa assieme con certosina pazienza da Francesco Pinzone, mio padre[2].
Si noterà come alcuni nomi, nel diventare soprannomi, siano rimasti, al di là
della sicilianizzazione, inalterati. Altri invece si sono in qualche modo
trasformati, come quelli che hanno assunto la terminazione –inu, -ina, -ini (Marchinu, Cicchinu, Vitinu,
Pirrina, Giòrgina) o quella –azzu, -azza (Bastianazzu, Michilazzu, Paulazzu, Carminazzu).
Caratteristica di altri è invece una forma di diminuitivo (Anciulinu,
Binidittuzzu, Carmineddu, Gingillinu, Marchiulinu, Marcillina, Marietta, Minicheddu,
Niculetta, Ninetta, Ninettu, Pasqualeddu, Pitruzzu).
Va notato che il fenomeno
sembra essere, in riferimento all’area nebroidea di competenza, esclusivo di
Ucria, a giudicare almeno dal fatto che ‘nciurie
derivate da nomi propri non sono riscontrabili negli elenchi, ancorchè
incompleti, compilati da mio padre per alcuni centri viciniori, come Sinagra,
Floresta, Ficarra, S. Fratello e altri. Non sarei alieno dal leggere nella
peculiarità ucriese dell’usanza un segno di mentalità poco elastica e conservatrice
piuttosto accentuata nei nostri antenati.
Ma eccolo finalmente, in
ordine alfabetico, l’elenco (che non ha pretese di esaustività ed è, anzi, aperto
a suggerimenti, aggiunte e correzioni del caso):
Abramu,
Alfiu, Anciulinu, Arasu (da Orazio?)
Bastianazzu,
Bilardu (da Berardo?),
Binidittuzzu
Canniloru,
Carminazzu, Carmineddu, Ciccu/Cicchina, Diana (?)
Franz,
Furtunatu
Gesualdu,
Giancola (da Gian Nicola?),
Gingillinu, Gioia (?), Giòrgina/u,
Giorgiu, Giuliu, Giustina
Jachinu,
Libertu,
Linu, Liscianniru (da Alessandro), Lucianu, Luciu
Manueli,
Marcantoni, Marchinu, Marchiulinu, Marcillina, Marcioni (da
Marco?), Marianu, Marietta, Martinu,
Matteu, Meli, Michilancilu, Michilazzu, Minicheddu
Natali,
Niculetta, Ninetta/-ina, Ninettu
Pasquala,
Pasqualeddu, Paulazzu, Peppantoni, Petrantoni, Pifaniu (da
Epifanio), Pirru/Pirrina, Pitruzzu,
Policarpu, Pulidoru
Reginotta (da Regina), Ricu (da Enrico?)
Sadoru/Sidoru
(da
Isidoro), Scimuni (da Simone?), Sergiu, Simuni, Stefanu,
Valeriu,
Vitini (da Vito).
In altre ‘nciurie il nome non è solo, ma si accompagna,
a volte in fusione, con un altro nome proprio, con aggettivi, con apposizioni e
forme appositive e persino con forme verbali:
Amatu
Liu, Brasi Liuni, Caloriu Pinocchiu, Carminu Francia, Donna Rosa, Enzu
Catalammenzu[3],
Fravvicenzu (Frà Vincenzo), Mastru Jacintu, Mastru ‘Ndria, Mastrugnaziu,
Mastruntoni, Masu Barbuzza, ‘Ncoccia Marantona, ‘Ncugna Micheli, ‘Nnachiti
Peppa, Pasquali cu ‘a corda, Patrignaziu
(Padre Ignazio), Stefanu ‘u pazzu, Vanni Sciroccu, Za Giuvanna, Zu
Caloriu Firanti, Zu Rusariu Puntarossa.
A proposito di nomi, mi
piace concludere con un paio di cantilene (qualcuno le ha definite tiriteri supra li nomi) spesso usate in passato quando si voleva scherzare
o prendere in giro qualcuno che aveva quel nome:
-
Catarina
vascia vascia/Metti ‘u pedi supra a cascia./Vadi a musca cavaddina e muzzica a
Catarina.
-
Rosetta
pigghia ‘u sciallu/chi t’arriva ‘u maresciallu.
A queste due, riportate da mio padre
nell’elenco delle ‘nciurie, perché
evidentemente indirizzate in maniera precisa a personaggi del paese, si
potrebbero aggiungere anche queste (e naturalmente tante altre che non ricordo
o che non ho mai sentito):
-
Marianna
passa ‘ddabbanna/Pigghia ‘u cuteddu e scanna a to nanna.[4]
-
Ninu
Nanu/ supra ‘u cantaranu/cu na cannila a manu/ chi paria un sacristanu.
-
Ninu
Nanu/Mastru Bastianu/quattru e cincu ‘nto pagghiaru..
-
Mastr’Antuninu
lu porcu scintinu, jiu ‘nta la chiazza p’un sordu di vinu.[5]
-
Focu
di vespa/di donna Signurina./Giuvanni, Giuvanni!/ Passa ‘ddabanna e pigghia lu
fasuni!/ ‘Mmazza ‘a ‘sta vespa chi mi muzzicau ‘u cuddizzuni.[6]
Le divagazioni su nomi e
soprannomi ucriesi potrebbero continuare a lungo e se ne avrò l’estro e la
voglia lo farò in una prossima noterella. Ma per stavolta, rubando le parole al
sommo Virgilio, sat prata biberunt.
[1] Ringrazio Carmelino Rigoli e Bastianino Crisà per gli
utili suggerimenti datimi in occasione di una recente escursione in fuoristrada
a Cartulari.
[2] Della raccolta esiste un dattiloscritto che porta il
titolo di ‘Nciuria e supranciuria.
Pecchi. Nel frontespizio si possono leggere alcune righe, vergate a mano
dall’autore, che così recitano: “Sono tutti qui i miei paesani, coi loro
pecchi, coi loro pregi. Il soprannome potrebbe servire a descriverli, ma spesso
non corrisponde più al vero motivo per cui furono appioppati”.
[3] Evidente il prestito da una cantilena, non so se
conosciuta anche ad Ucria, che così suonava: Enzu un rotulu e menzu/’a pasta cu sucu/ e patati ‘nto menzu.
[4] Nella zona di Catania il testo era diverso e più
lungo: Marianna passa ‘ddabbanna/fatti ‘u
tuppu ca veni to nanna/ e fattillu bellu, pulitu/ ca stasira veni ‘u to zitu.
[5] Sono in realtà i versi iniziali di una lunga poesia
del poeta ucriese Ninu Corda.
[6] Era cantata sul motivo del noto Inno dei giovani fascisti (“Fuoco di Vesta che fuor del tempio
irrompe...”) e, come mi suggerisce mio fratello Luigi Pinzone, sarebbe stata
composta dall’Ing. Antonino Ioppolo, sindaco di Ucria nel secondo dopoguerra,
in risposta a versi caustici e maldicenti al suo riguardo, fatti circolare da
“donna Signurina ‘a Spirrinchia” (chi la ricorda sa che per lingua non era
seconda a nessuno). Purtroppo la canzoncina di donna Signurina credo sia andata
perduta.
"Notarelle", le intitola Nino Pinzone, e conclude con un verso di Virgilio: "sat prata biberunt" che tradotto liberamente suona "Vi ho annoiato a sufficienza". E invece no, caro Nino, mi hai appassionato, e non poco. Per gli stornelli, cantati sempre a notte fonda, al di là di "donnasignurina",donna di paglia, occorre fare riferimento alle rivalità politiche, a Ucria, sempre aspre e colorite. Ciao, ciao
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