LA FARINATA DDU PUZZU
L’ORO DI UCRIA
* Silvia Nici *
Parlare
di farinata ad Ucria è quasi come
parlare di cassata per la Sicilia.
Gusto
particolare, caratteristico, o piace o
non piace, non ci sono vie di mezzo, penso che puoi apprezzarne davvero il
gusto solo se sei ucriese, non mi spiego perché, come se fosse una cosa solo
nostra, infatti viene difficilmente apprezzata da chi non la conosce.
Da
piccola non riesci neanche ad immaginare il grande lavoro che ci sta dietro, la farinata ti ricorda “solo” la stufa a
legna dalla nonna, qualche pezzettino messo a riscaldare lì sopra, noci e
nocciole tostate.
A
prima vista sembra impossibile immaginare che gli ingredienti siano solo due, due soltanto e l’aggiunta di un pizzico di
cannella, a piacere. Questi due ingredienti sono i fichi d’india e la farina, ricetta semplicissima banale che
racchiude il lavoro di una giornata intera.
Nonostante
la fatica che nasconde quest’apparente caramella
gommosa, farla, rappresenta sempre un momento di unione e di gioia.
Una
volta la farinata richiamava intere famiglie, vicini di casa e amici, che si
riunivano nella campagna più grande, nel mese di settembre per collaborare alla
creazione dell’unico dolce che ci si poteva permettere. Il motivo principale di tanto lavoro era smaltire i fichi d’india che
invadono le nostre campagne.
Il
giorno prima del procedimento in sé si raccolgono i fichi d’india, il giorno
dopo con l’aiuto di una scopa si eliminano le spine. Si, le spine, a migliaia, tornerai a casa ricoperta, ma c’è poco da
fare, come dice la nonna: “piojinun c’ha
fari casu”.
Una
volta sbucciati, si schiacciano con le mani e si mettono nel calderone, in
siciliano “u lavizzu”, e quindi sul
fuoco per farli diminuire di volume, per più di un’ora.
Sceso
dal fuoco ancora caldo, il liquido ottenuto, si passa a setaccio, per eliminare
tutti i semi del frutto, ed è questo il
momento più bello della farinata, tutti seduti, preferibilmente su “cippi” o “fillizzi” ognuno con il
proprio passatutto migliore, portato da casa, a lavorare per ottenere minor
scarto possibile e un succo denso e pulito; quest’ultimo adesso si misura e per
ogni litro ottenuto si aggiungono 100 gr
(poco più) di farina, il tutto si passa nuovamente a setaccio per eliminare
grumi che potrebbero crearsi.
Si
rimette tutto il composto nuovamente sul fuoco, per almeno un’altra ora girando
continuamente, per far si che non si attacchi alle pareti del lavizzu.
Adesso
la farinata può essere messa nei piatti, questi devono essere bagnati
singolarmente per far si che una volta che il contenuto si solidifichi leggermente,
può essere capovolto facilmente. A caldo possono essere aggiunte anche nocciole
tostate.
I più piccoli e i più golosi
potranno andare a mangiare le rimanenze del lavizzu.
Il
lavoro continua successivamente perché per essere conservata anche più di un
anno, la farinata fresca deve essere asciugata al sole accuratamente e evitare
si ammuffisca. Più è asciutta, più formerà il tartaro al di sopra che le dà un
sapore migliore.
La farinata rappresenta un
momento di gioia e, per me, racchiude la forza dei miei nonni che nonostante
l’età, si impegnano ogni anno per mantenere la tradizione.
Una delle tradizioni più belle
del nostro paese, della mia famiglia.
Tutta
la procedura per fare la farinata la troverete nel video allegato all’articolo
sul nostro social youtube.
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