‘A PISERA
* Giuseppe
Allia *
Arrivati alla mia età capita spesso
di ritornare col pensiero agli anni della fanciullezza. Ritornano così alla mente ricordi di momenti sereni,
semplici e genuini che indubbiamente si rimpiangono.
Eccone
uno: <<‘a Pisera>> (la
trebbiatura del grano).
Esso mi porta agli inizi dell’estate
del 1955. Ho parlato di ricordi sereni, questo ha però anche una parte
drammatica ma, grazie al Signore, che ascoltò la preghiera accorata e spontanea
di un ragazzino di 10 anni, non ebbe conseguenze: ogni cosa a suo tempo.
Quell’anno, mia madre, la maestra
Maria Concetta Muscarà, figlia di don Antonino ‘u Pintu e moglie di don
Vincenzino Allia, applicato al Comune e che ricordava a memoria la data di
nascita di tutti gli abitanti di Ucria, ci annunciò che dal 7 luglio saremmo
andati a stare per un paio di settimane a Ridaffi nella proprietà dell’onorevole
Drago, in occasione della “pisera”.
Io ne fui
particolarmente entusiasta: dal balcone di casa mia potevo scorgere il bel
palazzo del fratello della baronessa Sara Drago situato sull’altro versante della
vallee ne ero particolarmente attratto.
Il sette puntualmente partii per
Ridaffi insieme a mia madre e dai miei fratelli Enzo e Nino; mio padre e mia
sorella Carmelina erano dovuti rimanere a casa: mio padre per motivi di lavoro,
mia sorella per aiutare un’amichetta nella preparazione degli esami di
riparazione. Ci avrebbero raggiunti nei fine settimana.
Dopo un paio di
giorni dal nostro arrivo cominciarono i
preparativi per la pisera.
La mietitura era già stata fatta, tra fine giugno e i primi di
luglio, a mano con la falce di cui i giovani possono ammirarne degli esemplari
presso il Museo Etnostorico dei Nebrodi
“Antonino Gullotti”.
I mietitori avevano legato al polso
sinistro un pezzo di cuoio per evitare che il polso potesse subire traumi
nell’atto di stringere le spighe. Davanti portavano un grembiule di tela
pesante per proteggere il torace da eventuali abrasioni causate dalle spighe. Quell’anno
c’erano tre gruppi, ciascuno formato da tre mietitori e un legatore, adibito
alla legatura dei covoni. Finita la mietitura e preparati i covoni, i lavoranti
si dedicarono alla preparazione dell’aia in uno spiazzo sotto il palazzo. Essa era stata preparata adeguatamente
rassodando il terreno: una persona aveva versato dell'acqua, un'altra aveva
sparso la pula per riempire i buchi e una terza batteva con un maglio di legno
il terreno nel punto in cui era soffice o sollevato dalle talpe. L'intera superficie
dell'aia, asciutta, veniva pulita con una scopa fatta con rami di ginestra. I covoni per mezzo di forconi furono
sistemati in cerchi concentrici. La prima fila aveva la spiga rivolta verso
l’interno, la successiva in maniera opposta e così via, fino a coprire tutta la
superficie dell’aia.
Poi fecero il loro ingresso
trionfale Gemma e Primavera, le due mucche. Sul loro collo era stato sistemato il giogo (attrezzo in legno, con
accessori in metallo e in cuoio, in forma di barra trasversale sagomata) per
farle girare in tondo. Infine al giogo era legata una grossa pietra con una
robusta catena. La pietra trascinata sui fasci di grano, col suo enorme peso,
separava i chicchi dalla paglia.
A noi ragazzi fu permesso di
parteciparvi. Io una volta mi sistemai
sulla pietra facendomi così trascinare. Un signore, non ne ricordo più il
nome, dotato di braccia robuste dirigeva il girotondo restando al centro dell’aia,
tenendo in una mano le redini degli animali e nell’altra una frusta di cuoio
che, sovente, faceva schioccare per incitare gli animali a girare. Dopo circa
mezz’ora di girotondo faceva cambiare il verso.
Alla fine di ogni giornata di lavoro
la paglia che si era formata veniva raccolta in un angolo dell’aia ed
incominciava così il divertimento di noi ragazzi. Eravamo un cinque o sei
ragazzini ed anche un paio di ragazzine che caparbiamente vollero unirsi ai
nostri giochi. Mio fratello Nino ed io avevamo portato dalla nostra casa di
Ucria, una bella palla di gomma, grande quasi quanto un pallone di calcio:
regalo di mio fratello Enzo, che sempre quando ritornava da Messina, dove studiava,
mi portava sempre un regalino.
Avendo a disposizione un letto
soffice di paglia ci divertimmo un mondo. Uno di noi faceva il portiere e
lanciava la palla alternativamente agli altri che, posizionati di fronte ad una
distanza di alcuni metri, la colpivano di testa indirizzandola verso il
portiere che così si poteva esibire in memorabili tuffi sulla montagna di paglia
per afferrarla. Ricordo bene che anche le ragazzine si dimostrarono brave come
portiere e come colpitrici di testa.
I giorni volarono via e si arrivò
così alla vigilia del ritorno a casa. Anche quel giorno giocammo con la palla
fino a sera. Poi dovemmo smettere perché s’era fatto tardi. Finita la cena mi
accorsi che avevamo dimenticato la palla fuori nell’aia e chiesi a mio fratello
Nino di andare a cercarla insieme. Poiché era buio, egli disse: “armiamoci”.
Per andare fuori si attraversava un terrazzino dove c’era una scopa con il
manico che presi come arma, Nino trovò invece un rastrello. Il terrazzino aveva
il cancelletto semi aperto ed io uscii senza toccarlo. Lo stesso fece mio
fratello ma il rastrello si impigliò nel cancelletto che gli rovinò addosso ed
una sua lancia andò a colpirlo dietro al ginocchio destro. Un grido acuto e
prolungato di dolore fece accorrere tutti. Io che ero un metro più avanti
rimasi pietrificato. Un giovane robusto liberò da sotto il cancello mio
fratello e presolo in braccio lo andò ad adagiare sul suo letto. Non voglio qui
raccontare quella notte terribile. Io non chiusi occhio e pregai il Signore con
una intensità ed una fede immensa perché aiutasse mio fratello: poteva rimanere
zoppo per tutta la vita se la lancia aveva colpito un tendine. Il Signore
ascoltò la mia preghiera e quella di tutti gli altri: mio fratello dopo un paio
di giorni tornò a camminare normalmente e porta ancora oggi il segno indelebile
che gli lasciò la lancia ad un millimetro dal tendine del ginocchio destro.
Febbraio
2016 Peppino
Allia
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