lunedì 15 febbraio 2016

‘A PISERA * Giuseppe Allia *

‘A  PISERA
* Giuseppe Allia *
            Arrivati alla mia età capita spesso di ritornare col pensiero agli anni della fanciullezza. Ritornano così alla mente ricordi di momenti sereni, semplici e genuini che indubbiamente si rimpiangono.
         Eccone uno: <<‘a Pisera>> (la trebbiatura del grano).
            Esso mi porta agli inizi dell’estate del 1955. Ho parlato di ricordi sereni, questo ha però anche una parte drammatica ma, grazie al Signore, che ascoltò la preghiera accorata e spontanea di un ragazzino di 10 anni, non ebbe conseguenze: ogni cosa a suo tempo.
            Quell’anno, mia madre, la maestra Maria Concetta Muscarà, figlia di don Antonino ‘u Pintu e moglie di don Vincenzino Allia, applicato al Comune e che ricordava a memoria la data di nascita di tutti gli abitanti di Ucria, ci annunciò che dal 7 luglio saremmo andati a stare per un paio di settimane a Ridaffi nella proprietà dell’onorevole Drago, in occasione della “pisera”.
Io ne fui particolarmente entusiasta: dal balcone di casa mia potevo scorgere il bel palazzo del fratello della baronessa Sara Drago situato sull’altro versante della vallee ne ero particolarmente attratto.
            Il sette puntualmente partii per Ridaffi insieme a mia madre e dai miei fratelli Enzo e Nino; mio padre e mia sorella Carmelina erano dovuti rimanere a casa: mio padre per motivi di lavoro, mia sorella per aiutare un’amichetta nella preparazione degli esami di riparazione. Ci avrebbero raggiunti nei fine settimana.
Dopo un paio di giorni dal nostro arrivo cominciarono i preparativi per la pisera.
         La mietitura era già stata fatta, tra fine giugno e i primi di luglio, a mano con la falce di cui i giovani possono ammirarne degli esemplari presso il Museo Etnostorico dei Nebrodi “Antonino Gullotti”.
            I mietitori avevano legato al polso sinistro un pezzo di cuoio per evitare che il polso potesse subire traumi nell’atto di stringere le spighe. Davanti portavano un grembiule di tela pesante per proteggere il torace da eventuali abrasioni causate dalle spighe. Quell’anno c’erano tre gruppi, ciascuno formato da tre mietitori e un legatore, adibito alla legatura dei covoni. Finita la mietitura e preparati i covoni, i lavoranti si dedicarono alla preparazione dell’aia in uno spiazzo sotto il palazzo.  Essa era stata preparata adeguatamente rassodando il terreno: una persona aveva versato dell'acqua, un'altra aveva sparso la pula per riempire i buchi e una terza batteva con un maglio di legno il terreno nel punto in cui era soffice o sollevato dalle talpe. L'intera superficie dell'aia, asciutta, veniva pulita con una scopa fatta con rami di ginestra. I covoni per mezzo di forconi furono sistemati in cerchi concentrici. La prima fila aveva la spiga rivolta verso l’interno, la successiva in maniera opposta e così via, fino a coprire tutta la superficie dell’aia.
            Poi fecero il loro ingresso trionfale Gemma e Primavera, le due mucche. Sul loro collo era stato sistemato il giogo (attrezzo in legno, con accessori in metallo e in cuoio, in forma di barra trasversale sagomata) per farle girare in tondo. Infine al giogo era legata una grossa pietra con una robusta catena. La pietra trascinata sui fasci di grano, col suo enorme peso, separava i chicchi dalla paglia.
            A noi ragazzi fu permesso di parteciparvi. Io una volta mi sistemai sulla pietra facendomi così trascinare. Un signore, non ne ricordo più il nome, dotato di braccia robuste dirigeva il girotondo restando al centro dell’aia, tenendo in una mano le redini degli animali e nell’altra una frusta di cuoio che, sovente, faceva schioccare per incitare gli animali a girare. Dopo circa mezz’ora di girotondo faceva cambiare il verso.
            Alla fine di ogni giornata di lavoro la paglia che si era formata veniva raccolta in un angolo dell’aia ed incominciava così il divertimento di noi ragazzi. Eravamo un cinque o sei ragazzini ed anche un paio di ragazzine che caparbiamente vollero unirsi ai nostri giochi. Mio fratello Nino ed io avevamo portato dalla nostra casa di Ucria, una bella palla di gomma, grande quasi quanto un pallone di calcio: regalo di mio fratello Enzo, che sempre quando ritornava da Messina, dove studiava, mi portava sempre un regalino.
            Avendo a disposizione un letto soffice di paglia ci divertimmo un mondo. Uno di noi faceva il portiere e lanciava la palla alternativamente agli altri che, posizionati di fronte ad una distanza di alcuni metri, la colpivano di testa indirizzandola verso il portiere che così si poteva esibire in memorabili tuffi sulla montagna di paglia per afferrarla. Ricordo bene che anche le ragazzine si dimostrarono brave come portiere e come colpitrici di testa.
            I giorni volarono via e si arrivò così alla vigilia del ritorno a casa. Anche quel giorno giocammo con la palla fino a sera. Poi dovemmo smettere perché s’era fatto tardi. Finita la cena mi accorsi che avevamo dimenticato la palla fuori nell’aia e chiesi a mio fratello Nino di andare a cercarla insieme. Poiché era buio, egli disse: “armiamoci”. Per andare fuori si attraversava un terrazzino dove c’era una scopa con il manico che presi come arma, Nino trovò invece un rastrello. Il terrazzino aveva il cancelletto semi aperto ed io uscii senza toccarlo. Lo stesso fece mio fratello ma il rastrello si impigliò nel cancelletto che gli rovinò addosso ed una sua lancia andò a colpirlo dietro al ginocchio destro. Un grido acuto e prolungato di dolore fece accorrere tutti. Io che ero un metro più avanti rimasi pietrificato. Un giovane robusto liberò da sotto il cancello mio fratello e presolo in braccio lo andò ad adagiare sul suo letto. Non voglio qui raccontare quella notte terribile. Io non chiusi occhio e pregai il Signore con una intensità ed una fede immensa perché aiutasse mio fratello: poteva rimanere zoppo per tutta la vita se la lancia aveva colpito un tendine. Il Signore ascoltò la mia preghiera e quella di tutti gli altri: mio fratello dopo un paio di giorni tornò a camminare normalmente e porta ancora oggi il segno indelebile che gli lasciò la lancia ad un millimetro dal tendine del ginocchio destro.
         Febbraio 2016                                                                                          Peppino Allia










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