LA ‘NDRANGHETA E LE MAFIE CLASSE
DIRIGENTE CHE NON VOGLIAMO NÉ COME PADRINI NÉ COME PADRONI.
Un grido d’allarme di Nicola Gratteri e
Antonio Nicaso che dalla Calabria si coniuga con la nostra Sicilia in rapporti
stretti che vanno oltre il comparaggio per diventare Mafia
Achille Baratta
Non mi sono mai
sentito così ignorante. È una situazione di stallo dover stare per anni a
sentirti erudito e, poi, in un secondo tempo ti accorgi che tutte le tue
certezze si traducono in una parola sola: analfabetismo.
Certamente non si
possono sapere tutte le branche del sapere e dell’informazione, ma gli
argomenti fondanti di una società, come la nostra, non possono sconoscersi.
Che l’Italia sia
attanagliata dalle mafie è, purtroppo, evidente a tutti, ma Piero Grasso aveva
scritto “La mafia invisibile” e Sciascia l’aveva romanzata anche nel suo
realismo;ma come scrive Raffaele Carcano nel blog UAAR di “MicroMega” (30
aprile 2014):
«Che l’Italia difetti di civismo è evidente a tutti: siamo la patria del
“familismo amorale”, secondo la definizione che tra mille polemiche e poche
confutazioni coniò Edward Banfield descrivendo un paesino del sud (peraltro
assolutamente cattolico). Ed è innegabile che sia la fede cattolica a riempire
spesso tale vuoto. L’irrazionale del resto riempie sempre un vuoto: esiste
proprio per questo. Ma è discutibile, molto discutibile che la religione svolga
un ruolo di supplenza. In realtà è vero il contrario: oltre la religione non
c’è alcun vuoto, c’è invece proprio il civismo. Perché è il civismo che
costituisce il supplente o, meglio ancora, il reale sostituto della religione:
il civismo segue cronologicamente la religione e ne ha rimpiazzato le funzioni
sociali. La religione è infatti nata quale quadro ideologico imposto a tutti
all’interno di una società tribale, e non è stata poi in grado di adattarsi a
società plurali. Il civismo, la laicità e la democrazia sono valori che sono
emersi a causa dell’incapacità, costitutiva delle dottrine religiose di dare un
quadro valoriale comune all’intera popolazione. È in qualche modo inevitabile:
una parte della società difficilmente può riuscire a forgiare i comportamenti
virtuosi di tutti coloro che ne fanno parte».
Ma per parlare di
civismo sociale e politico occorre conoscere le mafie e la loro storia.
Finalmente uno
squarcio di verità ci viene dal libro edito in questi giorni da Mondadori,
scritto da chi – ogni giorno – sfida le forze occulte e meno occulte che si
chiama “’ndrangheta”, è un giudice di Palmi, in Calabria, che ci racconta come
fin dalla Unità d’Italia, anche naturalmente prima, la malavita organizzata è
stata l’ombra nera della politica; con lui scrive Antonio Nicaso, storico della
organizzazione criminale, il loro volume “Padrini e padroni” è stato stampato
nel Trentino su carta da fonti gestite in maniera responsabile. Certamente,
personalmente avrei preferito che fosse stampato in Calabria, ma i percorsi
editoriali sono quelli e se vuoi dare voce ai tuoi sentimenti di dovere devi
attaccarti alla tromba che suona più forte.
Il libro racconta la
storia e le storie che non avevo mai letto: «Nella
notte tra il 15 e il 16 giugno del 1869 a Firenze, in via dell’Amorino, a pochi
passi dalla stazione di Santa Maria Novella, un uomo viene pugnalato. Il ferito
non è un uomo qualunque. Si chiama Cristiano Lobbia, maggiore dell’esercito, ex
garibaldino, eletto deputato nel collegio di Thiene-Asiago, nella lista del
Partito liberale.
La notizia dell’agguato finisce sulle prime pagine di
tutti i giornali e manifestazioni di solidariètà vengono organizzate in molte
città italiane. Quella di Milano si conclude con gravi incidenti, mentre in
Parlamento infuria la polemica. “Se il Governo in questa circostanza non usasse
il rigore, l’energia e la speditezza necessaria per arrivare allo scorrimento
della trama scellerata di cui fu vittima l’onorevole Lobbia, sapete che cosa ne
avverrebbe?” si chiede, tra gli altri, il parlamentare calabrese Luigi Miceli
durante la seduta. “Avverrebbe che il pugnale che non ha ucciso l’onorevole
Lobbia avrebbe ucciso la coscienza del Paese”.
Tutto
era qualche mese prima, quando il governo, guidato dal generale Federico
Menabrea, aveva deciso di cedere per vent’anni il monopolio dei tabacchi a
faccendieri legali al Credito Mobiliare, in cambio di un’anticipazione di cassa
di 10 milioni di lire: meno della metà di quelli offerti – senza accordi
capestro – da stimati finanzieri parigini e londinesi. La convenzione, firmata
con lo scopo di risanare le casse dello Stato, svuotate dalle spese militari
per le guerre d’indipendenza, aveva immediatamente suscitato molti sospetti. Si
era vociferato che per favorirla fossero stati distribuiti diversi milioni –
“zuccherini” – “dei quali sei al re e due [da dividersi] tra sessanta
deputati”. Sollevando in Parlamento due grossi plichi con cinque sigilli rossi,
il maggiore Lobbia aveva dichiarato di possedere “dichiarazioni di testimoni,
superiori a qualsiasi eccezione a carico di un deputato nostro collega”».
Naturalmente, poi,
il maggiore Lobbia viene incriminato e “Quando gli restituiscono l’onore – come
scrive Gian Antonio Stella – è un uomo finito”.
In quegli anni
sembra che tutto venga girato in un film in retrospettiva:
«“Fazzoletto annodato al collo, solini piegati,
cappellino tondo sotto le cui falde si vede il ciuffo dei bravi”, il
calzone a campana, cioè stretto alle gambe e cadente largo sulle scarpe, i
camorristi reggini fanno capo a Francesco De Stefano di Giorgio e a Paolo
Panzera di Filippo, entrambi originari di Sbarre-Spirito Santo.
De Stefano non è un “guappo” qua1unque. Droghiere, è uno
dei “principali sospetti in fatto di furti, di grassazioni, di contrabbando di
merci e di smaltimento di biglietti falsi della Banca”. Privato del porto
d’armi, nel 1872 verrà ammonito come “maffioso e camorrista” e nel 1880 il suo
indirizzo verrà rinvenuto, tra alcune carte sequestrate
all’anarchico-rivoluzionario internazionalista Andrea Costa e alla sua compagna
Anna Kuliscioff.
L’organizzazione criminale, già segnalata nel 1861 al
ministro dell’interno dal prefetto Raffaele Cassito, per il “modo deplorevole”
con cui infesta la città di Reggio Calabria, è conosciuta negli ambienti
investigativi come “setta degli accoltellatori”, comprendente anche malavitosi
messinesi e in grado di dirimere questioni private e grane elettorali. Si
addestrano all’uso del coltello e praticano la “tirata”, una sorta di duello
rusticano, simile a quello descritto da Marc Monnier nella sua inchiesta del
1862 sulla camorra napoletana.
Nelle elezioni del 1869, gli “accoltellatori” di De
Stefano, denominato “gran bastone”, arrivano a intimidire politici e
professionisti, assumendo atteggiamenti minacciosi davanti ai seggi e
rendendosi protagonisti di brogli elettorali, tanto da costringere il prefetto
Achille Serpieri a sciogliere il Consiglio comunale appena eletto».
La motivazione
“schede false”, quelle schede false hanno risonanza in campo nazionale. Ma non
basta; anche le Americhe ne sono condizionate e oggi che cosa succede e
succederà?
«A Reggio Calabria Luigi De Blasio viene eletto sindaco
della città. A Bagnara si conferma Francesco Saverio Vollaro. Tornano in
Parlamento anche Luigi Miceli, Giovanni Nicotera, Achille Fazzari, Alfonso
Lucifero e Pietro Toscano. Su 2.420.327 elettori votano 1.415.801, il 58,5 per
cento degli aventi diritto. Entrano in Parlamento 292 deputati ministeriali, 25
della sinistra dissidente, 145 pentarchici, 44 radicali. È la legislatura che
segna il passaggio dai governi Depretis a quelli guidati dal siciliano
Francesco Crispi, difensore spietato dei vecchi assetti proprietari e
produttivi del Mezzogiorno.
Niente avviene al di fuori del controllo della
‘ndrangheta, neanche oltreoceano: alloggio, lavoro, apertura di piccoli
commerci. “Appena arrivati” scrive il “Corriere della Sera” in una
corrispondenza da New York, “cascano in mano della camorra o della mafia,
secondo il luogo di loro provenienza. Coteste due arpie del nostro disgraziato
paese; qui fioriscono meglio che in Italia, perché qui si raccolgono i soggetti
peggiori fra i caporioni, quelli che, se fossero in Italia, dovrebbero stare in
prigione a scontare qualche condanna”. Una malapratica che persiste nel tempo.
Ancora oggi i più spietati caporali nello sfruttamento della manodopera
extracomunitaria in Calabria sono legati alla ‘ndrangheta.
Le cose non cambiano neanche con l’arrivo del nuovo
secolo che sì apre con due omicidi eccellenti, quelli del re Umberto I e del
presidente degli Stati Uniti, William McKinley, entrambi uccisi per mano di
anarchici. Cresce il malcontento popolare contro l’aumento del prezzo del pane
e il pagamento della fondiaria o del focatico. In Calabria c’è chi protesta
anche per il mancato ampliamento dell’elenco dei poveri che dà accesso
all’assistenza medica gratuita. Nelle numerose rivolte popolari, tantissimi
contadini, alcuni anche minorenni, muoiono sotto i colpi dei moschetti
scaricati sulla folla dai reali carabinieri».
La storia è sempre
quella: violenza e sottrazione di atti nei tribunali, non è un fatto solo di
Calabria o di Stretto di Messina, ma ancora le cronache registrano
l’inverosimile.
«Passano 126 anni
dalla vicenda degli “accoltellatori” di Reggio Calabria e la ‘ndrangheta
riproduce gli stessi modelli in Val di Susa, in Piemonte, al confine con la
Francia, dove viene sciolto il Consiglio comunale di Bardonecchia. È una
decisione senza precedenti, la prima nel Nord dall’entrata in vigore nel 1991
della legge che consente l’azzeramento dei Consigli comunali per infiltrazioni
mafiose.
“La cattiva fama che la cittadina dell’Alta Valle di Susa
si porta dietro da oltre un ventennio, tuttavia, non è una novità, sebbene in
quei giorni di primavera del ‘95 a Bardonecchia si cerchi di minimizzare e si
finga perfino stupore per il provvedimento adottato dal Quirinale” scrive
Massimo Novelli su “la Repubblica”.
Nel 1995 è ancora una volta lo stupore a fare da sfondo a
una vicenda che ruota attorno a una serie di appalti per la costruzione di case
e alberghi a Campo Smith, una zona donata al comune di Bardonecchia al volgere
del secolo, con l’esplicita clausola di destinazione a parco pubblico e per un
tempo indefinito.
Il nome è legato all’impresa dei due -fratelli norvegesi,
Harald e Trigwe Smith, che nel 1909 avevano battuto il record mondiale dal
trampolino con un salto di 44 metri proprio a Bardonecchia, già allora
apprezzata località turistica, frequentata anche dal presidente del Consiglio
dei ministri del tempo, Giovanni Giolitti.
Ceduta a un prezzo
di gran lunga inferiore rispetto al valore di mercato, la zona Smith, negli
anni Novanta, viene trasformata in zona residenziale. A seguito di
un’inchiesta, vengono arrestati il sindaco e alcuni funzionari comunali con
l’accusa di speculazione edilizia, varianti ingiustificate al piano regolatore
generale e vendita sotto-costo di terreni. Dopo l’arresto, per manifestare
solidarietà al sindaco e ai burocrati finiti in manette, scendono in piazza
uomini di Chiesa ed esponenti politici di destra e di sinistra. Al processo di
appello, amministratori e funzionari comunali vengono prosciolti e in parte
risarciti per l’entrata in vigore di una nuova legge che modifica i criteri
della valutazione dei terreni e che di fatto porta a sottostimarli.
Nel decreto di scioglimento, del Consiglio comunale di
Bardonecchia nel 1995, il ministro dell’interno Antonio Brancaccio segnala
l’esistenza di “un vero e proprio comitato di affari” che, soprattutto in
materia edilizia e urbanistica, si mostra capace di influenzare le scelte e le
attività degli organi del comune.
Molti fingono di stupirsi. Ma dopo lo scioglimento del
Consiglio comunale, in città cambia poco o nulla. Nelle elezioni del 1996 la
lista a sostegno del sindaco che guidava il Consiglio comunale sciolto per
mafia ottiene il 70 per cento dei voti, dopo aver, incentrato la campagna
elettorale sul tema della “continuità” e potendo contare sull’appoggio sia del
Partito democratico, a sinistra, sia dei partiti di destra. Quattro dei nuovi
eletti, tra cui il nuovo sindaco, facevano parte del Consiglio comunale sciolto
per infiltrazione mafiosa».
Ma non è finita: gli
americani tornano in Calabria e dettano legge in occasione delle elezioni
amministrative del 1908; ecco il testo di un esposto inviato al Prefetto:
«L’amministrazione [comunale] presentendo la sua caduta
non lascia mezzo alcuno intentato per conservarsi al potere, e quindi
sguinzagliò nella lotta gli elementi peggiori dei bassi fondi sociali,
malavita, mano nera di New York reduci dalle patrie galere, ed il compagno del
bandito Musolino, Jatì Giovanni […] Questi tutti fanno capo a Filastò Gaetano,
assessore, zio di Musolino e padre di un grave pregiudicato Filastò Francesco,
troppo noto alla pubblica sicurezza. Tutto ciò per farsi un’idea che gente è
sul terreno elettorale. L’amministrazione sa che non può vincere sul terreno
legale e quindi tenta cercare disordini ed arbitrii per riuscire nell’intento.
E per meglio ricamare il piano prestabilito ha scelto per sala elettorale, non
quella del comune, ma un basso di casa Filastò, cioè del capo-partito Fava
Stefano. Da dove con posizione privilegiata, si possono dai sullodati elementi
provocare ogni sorta di provocazioni ed arbitrii con danno enorme agli
avversari che resterebbero allo scoperto da questa disonesta strategia,
preparata con arte a comprimere la volontà del corpo elettorale.
Nella denuncia, il notaio Fava fa anche riferimento
all’uso dell’acqua irrigua concessa strumentalmente per “ragioni elettorali”,
cioè con lo scopo di ottenere consensi».
Nel periodo fascista
una amnistia del 1932 vanifica quel poco che si era fatto, nel discorso dell’Ascensione
il Duce sulla Calabria e la malavita calabrese non fa neanche riferimento.
Poi gli anni e gli
uomini passano e dopo il golpe Borghese, il clan De Stefano:
«Dopo il tentato golpe Borghese, il clan De Stefano e i
suoi alleati incrociano la rivolta di Reggio che segna un momento decisivo del
patto politico-affaristico-mafioso. Uno spazio opaco tra legale e illegale,
fatto di collusioni e complicità. Si infiltrano tra le barricate, partecipano
agli scontri con le forze dell’ordine e alimentano la strategia della tensione,
come racconta Giacomo Lauro, ex boss di Pellaro. “Sono stato io a fornire la
carica di tritolo utilizzata per far deragliare il direttissimo Palermo-Torino,
all’altezza della stazione di Gioia Tauro” dichiara molti anni dopo ai
magistrati. In quell’occasione, perdono la vita sei persone; altre sessanta rimangono
ferite».
Per sedare la
rivolta il “Pacchetto Colombo” prende il nome dell’allora Presidente dei
Ministri, ma è una vera e propria trattativa con elargizioni finanziarie di
potere togliendo a Reggio Calabria la propria egemonia.
Il 12 luglio 1967
una truffa di alcune decine di milioni al Banco di Napoli: nessuna meraviglia;
poi in Sicilia si sono mangiati la Cassa di Risparmio per le province
siciliane.
Non solo Calabria,
Roma e Canadà, ma anche Germania:
«Ma la vicenda che porta la ‘ndrangheta alla ribalta
nazionale e internazionale è la strage di Duisburg, a Ferragosto del 2007. In
Germania, quel giorno, vengono assassinate sei persone nell’ambito di una faida
che da anni insanguina San Luca. Dietro motivi apparentemente riconducibili a
rivalità territoriali in Calabria ci sono gli interessi legati ai grandi
traffici di droga e agli investimenti in Germania. La notizia finisce sulle
prime pagine dei quotidiani tedeschi e italiani, ma anche americani,
australiani e canadesi. Il “Los Angeles Times” definisce la ‘ndrangheta la
regina del narcotraffico e il “The Guardian” una mafia ancora più potente di
Cosa nostra.
È troppo per fare ancora finta di non vederla, lasciando
l’impari lotta nelle mani di pochi magistrati che si affannano a chiedere
riforme normative, ma anche adeguamenti degli organici».
Poi la faccenda Di
Girolamo, senatore della nostra Repubblica e, anche, stranamente condannato per
riciclaggio di due miliardi di euro.
Poi, facendo una
parentesi fuori dal libro, penso alle processioni e ai funerali con i fiocchi e
inorridisco.
Così come gli
squarci di Fontana, questi eventi storici e documentati mi turbano e mi fanno
diventare incredulo nella mia ignoranza.
Un Paese turbato
profondamente, dove il sottile filo della corruzione ancora non viene percepito
piano ma è il filo conduttore non solo del libro ma di quella realtà di cui
probabilmente non ci libereremo mai, restando come scriveva Italo Calvino,
l’onestà nel Paese dei corrotti, e io aggiungo: vorremo rubare nella città dei
ladri e ci illudiamo di parlare di civismo, dove la violenza della politica
stringe la mano insanguinata degli “accoltellatori” con la dinamite in digitale
mondiale, in tempo reale, sono loro i primi veri autori della globalizzazione
senza frontiere.
Politicamente
parlando: chi resta fuori è un cornuto e, come tale, non è credibile né
votabile. Io voto NO. Non voglio morire suicida della mia libertà di voto.
Il nostro sud è
incredulo, noi stessi di Ucria e dei Nebrodi abbiamo dimenticato i
bandita-briganti di Tortorici che svolazzavano tra u sulazzu e l’acqua santa e
ttute le forme di violenza che si esercitavano nel pubblico e nel privato.
Ma ora che sappiamo
e che se anche non sapessimo leggere riusciremmo in ogni caso ad apprendere a
casa nostra dalle televisioni che ci propinano sia nel pubblico che nel privato
sempre e solo la voce del patrone di turno, non possiamo certamente dimenticare
il 46% dei giovani è senza occupazione e una percentuale simile sfiora la
povertà. Noi ne prendiamo atto e senza accorgersene partecipiamo alla vita
democratica in modo civile votando in massa: NO!
Ma quando si scrive
e si informa non possiamo fermarci solo al no, le nostre devono essere
dimostrazioni di presenze e di intervento, che possiamo manifestare anche con
queste pagine che sono il segno evidente di una civiltà diffusa che non può
confonderci col nostro passato di mancata democrazia che troppo spesso non è
distinzione di umanità e di uguaglianza.
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