mercoledì 14 dicembre 2016

LA ‘NDRANGHETA E LE MAFIE CLASSE DIRIGENTE CHE NON VOGLIAMO NÉ COME PADRINI NÉ COME PADRONI. Un grido d’allarme di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso che dalla Calabria si coniuga con la nostra Sicilia in rapporti stretti che vanno oltre il comparaggio per diventare Mafia - Achille Baratta

LA ‘NDRANGHETA E LE MAFIE CLASSE DIRIGENTE CHE NON VOGLIAMO NÉ COME PADRINI NÉ COME PADRONI.
Un grido d’allarme di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso che dalla Calabria si coniuga con la nostra Sicilia in rapporti stretti che vanno oltre il comparaggio per diventare Mafia
Achille Baratta

Non mi sono mai sentito così ignorante. È una situazione di stallo dover stare per anni a sentirti erudito e, poi, in un secondo tempo ti accorgi che tutte le tue certezze si traducono in una parola sola: analfabetismo.
Certamente non si possono sapere tutte le branche del sapere e dell’informazione, ma gli argomenti fondanti di una società, come la nostra, non possono sconoscersi.
Che l’Italia sia attanagliata dalle mafie è, purtroppo, evidente a tutti, ma Piero Grasso aveva scritto “La mafia invisibile” e Sciascia l’aveva romanzata anche nel suo realismo;ma come scrive Raffaele Carcano nel blog UAAR di “MicroMega” (30 aprile 2014):
«Che l’Italia difetti di civismo è evidente a tutti: siamo la patria del “familismo amorale”, secondo la definizione che tra mille polemiche e poche confutazioni coniò Edward Banfield descrivendo un paesino del sud (peraltro assolutamente cattolico). Ed è innegabile che sia la fede cattolica a riempire spesso tale vuoto. L’irrazionale del resto riempie sempre un vuoto: esiste proprio per questo. Ma è discutibile, molto discutibile che la religione svolga un ruolo di supplenza. In realtà è vero il contrario: oltre la religione non c’è alcun vuoto, c’è invece proprio il civismo. Perché è il civismo che costituisce il supplente o, meglio ancora, il reale sostituto della religione: il civismo segue cronologicamente la religione e ne ha rimpiazzato le funzioni sociali. La religione è infatti nata quale quadro ideologico imposto a tutti all’interno di una società tribale, e non è stata poi in grado di adattarsi a società plurali. Il civismo, la laicità e la democrazia sono valori che sono emersi a causa dell’incapacità, costitutiva delle dottrine religiose di dare un quadro valoriale comune all’intera popolazione. È in qualche modo inevitabile: una parte della società difficilmente può riuscire a forgiare i comportamenti virtuosi di tutti coloro che ne fanno parte».
Ma per parlare di civismo sociale e politico occorre conoscere le mafie e la loro storia.
Finalmente uno squarcio di verità ci viene dal libro edito in questi giorni da Mondadori, scritto da chi – ogni giorno – sfida le forze occulte e meno occulte che si chiama “’ndrangheta”, è un giudice di Palmi, in Calabria, che ci racconta come fin dalla Unità d’Italia, anche naturalmente prima, la malavita organizzata è stata l’ombra nera della politica; con lui scrive Antonio Nicaso, storico della organizzazione criminale, il loro volume “Padrini e padroni” è stato stampato nel Trentino su carta da fonti gestite in maniera responsabile. Certamente, personalmente avrei preferito che fosse stampato in Calabria, ma i percorsi editoriali sono quelli e se vuoi dare voce ai tuoi sentimenti di dovere devi attaccarti alla tromba che suona più forte.
Il libro racconta la storia e le storie che non avevo mai letto: «Nella notte tra il 15 e il 16 giugno del 1869 a Firenze, in via dell’Amorino, a pochi passi dalla stazione di Santa Maria Novella, un uomo viene pugnalato. Il ferito non è un uomo qualunque. Si chiama Cristiano Lobbia, maggiore dell’esercito, ex garibaldino, eletto deputato nel collegio di Thiene-Asiago, nella lista del Partito liberale.
La notizia dell’agguato finisce sulle prime pagine di tutti i giornali e manifestazioni di solidariètà vengono organizzate in molte città italiane. Quella di Milano si conclude con gravi incidenti, mentre in Parlamento infuria la polemica. “Se il Governo in questa circostanza non usasse il rigore, l’energia e la speditezza necessaria per arrivare allo scorrimento della trama scellerata di cui fu vittima l’onorevole Lobbia, sapete che cosa ne avverrebbe?” si chiede, tra gli altri, il parlamentare calabrese Luigi Miceli durante la seduta. “Avverrebbe che il pugnale che non ha ucciso l’onorevole Lobbia avrebbe ucciso la coscienza del Paese”.
Tutto era qualche mese prima, quando il governo, guidato dal generale Federico Menabrea, aveva deciso di cedere per vent’anni il monopolio dei tabacchi a faccendieri legali al Credito Mobiliare, in cambio di un’anticipazione di cassa di 10 milioni di lire: meno della metà di quelli offerti – senza accordi capestro – da stimati finanzieri parigini e londinesi. La convenzione, firmata con lo scopo di risanare le casse dello Stato, svuotate dalle spese militari per le guerre d’indipendenza, aveva immediatamente suscitato molti sospetti. Si era vociferato che per favorirla fossero stati distribuiti diversi milioni – “zuccherini” – “dei quali sei al re e due [da dividersi] tra sessanta deputati”. Sollevando in Parlamento due grossi plichi con cinque sigilli rossi, il maggiore Lobbia aveva dichiarato di possedere “dichiarazioni di testimoni, superiori a qualsiasi eccezione a carico di un deputato nostro collega”».
Naturalmente, poi, il maggiore Lobbia viene incriminato e “Quando gli restituiscono l’onore – come scrive Gian Antonio Stella – è un uomo finito”.
In quegli anni sembra che tutto venga girato in un film in retrospettiva:
«“Fazzoletto annodato al collo, solini piegati, cappellino tondo sotto le cui falde si vede il ciuffo dei bravi”, il calzone a campana, cioè stretto alle gambe e cadente largo sulle scarpe, i camorristi reggini fanno capo a Francesco De Stefano di Giorgio e a Paolo Panzera di Filippo, entrambi originari di Sbarre-Spirito Santo.
De Stefano non è un “guappo” qua1unque. Droghiere, è uno dei “principali sospetti in fatto di furti, di grassazioni, di contrabbando di merci e di smaltimento di biglietti falsi della Banca”. Privato del porto d’armi, nel 1872 verrà ammonito come “maffioso e camorrista” e nel 1880 il suo indirizzo verrà rinvenuto, tra alcune carte sequestrate all’anarchico-rivoluzionario internazionalista Andrea Costa e alla sua compagna Anna Kuliscioff.
L’organizzazione criminale, già segnalata nel 1861 al ministro dell’interno dal prefetto Raffaele Cassito, per il “modo deplorevole” con cui infesta la città di Reggio Calabria, è conosciuta negli ambienti investigativi come “setta degli accoltellatori”, comprendente anche malavitosi messinesi e in grado di dirimere questioni private e grane elettorali. Si addestrano all’uso del coltello e praticano la “tirata”, una sorta di duello rusticano, simile a quello descritto da Marc Monnier nella sua inchiesta del 1862 sulla camorra napoletana.
Nelle elezioni del 1869, gli “accoltellatori” di De Stefano, denominato “gran bastone”, arrivano a intimidire politici e professionisti, assumendo atteggiamenti minacciosi davanti ai seggi e rendendosi protagonisti di brogli elettorali, tanto da costringere il prefetto Achille Serpieri a sciogliere il Consiglio comunale appena eletto».
La motivazione “schede false”, quelle schede false hanno risonanza in campo nazionale. Ma non basta; anche le Americhe ne sono condizionate e oggi che cosa succede e succederà?
«A Reggio Calabria Luigi De Blasio viene eletto sindaco della città. A Bagnara si conferma Francesco Saverio Vollaro. Tornano in Parlamento anche Luigi Miceli, Giovanni Nicotera, Achille Fazzari, Alfonso Lucifero e Pietro Toscano. Su 2.420.327 elettori votano 1.415.801, il 58,5 per cento degli aventi diritto. Entrano in Parlamento 292 deputati ministeriali, 25 della sinistra dissidente, 145 pentarchici, 44 radicali. È la legislatura che segna il passaggio dai governi Depretis a quelli guidati dal siciliano Francesco Crispi, difensore spietato dei vecchi assetti proprietari e produttivi del Mezzogiorno.
Niente avviene al di fuori del controllo della ‘ndrangheta, neanche oltreoceano: alloggio, lavoro, apertura di piccoli commerci. “Appena arrivati” scrive il “Corriere della Sera” in una corrispondenza da New York, “cascano in mano della camorra o della mafia, secondo il luogo di loro provenienza. Coteste due arpie del nostro disgraziato paese; qui fioriscono meglio che in Italia, perché qui si raccolgono i soggetti peggiori fra i caporioni, quelli che, se fossero in Italia, dovrebbero stare in prigione a scontare qualche condanna”. Una malapratica che persiste nel tempo. Ancora oggi i più spietati caporali nello sfruttamento della manodopera extracomunitaria in Calabria sono legati alla ‘ndrangheta.
Le cose non cambiano neanche con l’arrivo del nuovo secolo che sì apre con due omicidi eccellenti, quelli del re Umberto I e del presidente degli Stati Uniti, William McKinley, entrambi uccisi per mano di anarchici. Cresce il malcontento popolare contro l’aumento del prezzo del pane e il pagamento della fondiaria o del focatico. In Calabria c’è chi protesta anche per il mancato ampliamento dell’elenco dei poveri che dà accesso all’assistenza medica gratuita. Nelle numerose rivolte popolari, tantissimi contadini, alcuni anche minorenni, muoiono sotto i colpi dei moschetti scaricati sulla folla dai reali carabinieri».
La storia è sempre quella: violenza e sottrazione di atti nei tribunali, non è un fatto solo di Calabria o di Stretto di Messina, ma ancora le cronache registrano l’inverosimile.
«Passano 126 anni dalla vicenda degli “accoltellatori” di Reggio Calabria e la ‘ndrangheta riproduce gli stessi modelli in Val di Susa, in Piemonte, al confine con la Francia, dove viene sciolto il Consiglio comunale di Bardonecchia. È una decisione senza precedenti, la prima nel Nord dall’entrata in vigore nel 1991 della legge che consente l’azzeramento dei Consigli comunali per infiltrazioni mafiose.
“La cattiva fama che la cittadina dell’Alta Valle di Susa si porta dietro da oltre un ventennio, tuttavia, non è una novità, sebbene in quei giorni di primavera del ‘95 a Bardonecchia si cerchi di minimizzare e si finga perfino stupore per il provvedimento adottato dal Quirinale” scrive Massimo Novelli su “la Repubblica”.
Nel 1995 è ancora una volta lo stupore a fare da sfondo a una vicenda che ruota attorno a una serie di appalti per la costruzione di case e alberghi a Campo Smith, una zona donata al comune di Bardonecchia al volgere del secolo, con l’esplicita clausola di destinazione a parco pubblico e per un tempo indefinito.
Il nome è legato all’impresa dei due -fratelli norvegesi, Harald e Trigwe Smith, che nel 1909 avevano battuto il record mondiale dal trampolino con un salto di 44 metri proprio a Bardonecchia, già allora apprezzata località turistica, frequentata anche dal presidente del Consiglio dei ministri del tempo, Giovanni Giolitti.
Ceduta a un prezzo di gran lunga inferiore rispetto al valore di mercato, la zona Smith, negli anni Novanta, viene trasformata in zona residenziale. A seguito di un’inchiesta, vengono arrestati il sindaco e alcuni funzionari comunali con l’accusa di speculazione edilizia, varianti ingiustificate al piano regolatore generale e vendita sotto-costo di terreni. Dopo l’arresto, per manifestare solidarietà al sindaco e ai burocrati finiti in manette, scendono in piazza uomini di Chiesa ed esponenti politici di destra e di sinistra. Al processo di appello, amministratori e funzionari comunali vengono prosciolti e in parte risarciti per l’entrata in vigore di una nuova legge che modifica i criteri della valutazione dei terreni e che di fatto porta a sottostimarli.
Nel decreto di scioglimento, del Consiglio comunale di Bardonecchia nel 1995, il ministro dell’interno Antonio Brancaccio segnala l’esistenza di “un vero e proprio comitato di affari” che, soprattutto in materia edilizia e urbanistica, si mostra capace di influenzare le scelte e le attività degli organi del comune.
Molti fingono di stupirsi. Ma dopo lo scioglimento del Consiglio comunale, in città cambia poco o nulla. Nelle elezioni del 1996 la lista a sostegno del sindaco che guidava il Consiglio comunale sciolto per mafia ottiene il 70 per cento dei voti, dopo aver, incentrato la campagna elettorale sul tema della “continuità” e potendo contare sull’appoggio sia del Partito democratico, a sinistra, sia dei partiti di destra. Quattro dei nuovi eletti, tra cui il nuovo sindaco, facevano parte del Consiglio comunale sciolto per infiltrazione mafiosa».
Ma non è finita: gli americani tornano in Calabria e dettano legge in occasione delle elezioni amministrative del 1908; ecco il testo di un esposto inviato al Prefetto:
«L’amministrazione [comunale] presentendo la sua caduta non lascia mezzo alcuno intentato per conservarsi al potere, e quindi sguinzagliò nella lotta gli elementi peggiori dei bassi fondi sociali, malavita, mano nera di New York reduci dalle patrie galere, ed il compagno del bandito Musolino, Jatì Giovanni […] Questi tutti fanno capo a Filastò Gaetano, assessore, zio di Musolino e padre di un grave pregiudicato Filastò Francesco, troppo noto alla pubblica sicurezza. Tutto ciò per farsi un’idea che gente è sul terreno elettorale. L’amministrazione sa che non può vincere sul terreno legale e quindi tenta cercare disordini ed arbitrii per riuscire nell’intento. E per meglio ricamare il piano prestabilito ha scelto per sala elettorale, non quella del comune, ma un basso di casa Filastò, cioè del capo-partito Fava Stefano. Da dove con posizione privilegiata, si possono dai sullodati elementi provocare ogni sorta di provocazioni ed arbitrii con danno enorme agli avversari che resterebbero allo scoperto da questa disonesta strategia, preparata con arte a comprimere la volontà del corpo elettorale.
Nella denuncia, il notaio Fava fa anche riferimento all’uso dell’acqua irrigua concessa strumentalmente per “ragioni elettorali”, cioè con lo scopo di ottenere consensi».
Nel periodo fascista una amnistia del 1932 vanifica quel poco che si era fatto, nel discorso dell’Ascensione il Duce sulla Calabria e la malavita calabrese non fa neanche riferimento.
Poi gli anni e gli uomini passano e dopo il golpe Borghese, il clan De Stefano:
«Dopo il tentato golpe Borghese, il clan De Stefano e i suoi alleati incrociano la rivolta di Reggio che segna un momento decisivo del patto politico-affaristico-mafioso. Uno spazio opaco tra legale e illegale, fatto di collusioni e complicità. Si infiltrano tra le barricate, partecipano agli scontri con le forze dell’ordine e alimentano la strategia della tensione, come racconta Giacomo Lauro, ex boss di Pellaro. “Sono stato io a fornire la carica di tritolo utilizzata per far deragliare il direttissimo Palermo-Torino, all’altezza della stazione di Gioia Tauro” dichiara molti anni dopo ai magistrati. In quell’occasione, perdono la vita sei persone; altre sessanta rimangono ferite».
Per sedare la rivolta il “Pacchetto Colombo” prende il nome dell’allora Presidente dei Ministri, ma è una vera e propria trattativa con elargizioni finanziarie di potere togliendo a Reggio Calabria la propria egemonia.
Il 12 luglio 1967 una truffa di alcune decine di milioni al Banco di Napoli: nessuna meraviglia; poi in Sicilia si sono mangiati la Cassa di Risparmio per le province siciliane.
Non solo Calabria, Roma e Canadà, ma anche Germania:
«Ma la vicenda che porta la ‘ndrangheta alla ribalta nazionale e internazionale è la strage di Duisburg, a Ferragosto del 2007. In Germania, quel giorno, vengono assassinate sei persone nell’ambito di una faida che da anni insanguina San Luca. Dietro motivi apparentemente riconducibili a rivalità territoriali in Calabria ci sono gli interessi legati ai grandi traffici di droga e agli investimenti in Germania. La notizia finisce sulle prime pagine dei quotidiani tedeschi e italiani, ma anche americani, australiani e canadesi. Il “Los Angeles Times” definisce la ‘ndrangheta la regina del narcotraffico e il “The Guardian” una mafia ancora più potente di Cosa nostra.
È troppo per fare ancora finta di non vederla, lasciando l’impari lotta nelle mani di pochi magistrati che si affannano a chiedere riforme normative, ma anche adeguamenti degli organici».
Poi la faccenda Di Girolamo, senatore della nostra Repubblica e, anche, stranamente condannato per riciclaggio di due miliardi di euro.
Poi, facendo una parentesi fuori dal libro, penso alle processioni e ai funerali con i fiocchi e inorridisco.
Così come gli squarci di Fontana, questi eventi storici e documentati mi turbano e mi fanno diventare incredulo nella mia ignoranza.
Un Paese turbato profondamente, dove il sottile filo della corruzione ancora non viene percepito piano ma è il filo conduttore non solo del libro ma di quella realtà di cui probabilmente non ci libereremo mai, restando come scriveva Italo Calvino, l’onestà nel Paese dei corrotti, e io aggiungo: vorremo rubare nella città dei ladri e ci illudiamo di parlare di civismo, dove la violenza della politica stringe la mano insanguinata degli “accoltellatori” con la dinamite in digitale mondiale, in tempo reale, sono loro i primi veri autori della globalizzazione senza frontiere.
Politicamente parlando: chi resta fuori è un cornuto e, come tale, non è credibile né votabile. Io voto NO. Non voglio morire suicida della mia libertà di voto.
Il nostro sud è incredulo, noi stessi di Ucria e dei Nebrodi abbiamo dimenticato i bandita-briganti di Tortorici che svolazzavano tra u sulazzu e l’acqua santa e ttute le forme di violenza che si esercitavano nel pubblico e nel privato.
Ma ora che sappiamo e che se anche non sapessimo leggere riusciremmo in ogni caso ad apprendere a casa nostra dalle televisioni che ci propinano sia nel pubblico che nel privato sempre e solo la voce del patrone di turno, non possiamo certamente dimenticare il 46% dei giovani è senza occupazione e una percentuale simile sfiora la povertà. Noi ne prendiamo atto e senza accorgersene partecipiamo alla vita democratica in modo civile votando in massa: NO!

Ma quando si scrive e si informa non possiamo fermarci solo al no, le nostre devono essere dimostrazioni di presenze e di intervento, che possiamo manifestare anche con queste pagine che sono il segno evidente di una civiltà diffusa che non può confonderci col nostro passato di mancata democrazia che troppo spesso non è distinzione di umanità e di uguaglianza.




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