L'AUTOBUSSU
Angela
Niosi
Partiva di mattina presto,
anticipando l’alba, come in una sorta di gara.
Ti aspettava col motore
acceso e, man mano che ti avvicinavi, potevi avvertirne il respiro,
una nuvola scura di gasolio emanata da sbuffi di tosse del motore.
Me lo ricordo azzurro e
panciuto, con una griglia sul davanti, simile ad una fronte corrugata e,
ai lati, due fanali come occhi malinconici.
Facevi fatica a salire il
primo gradino, più alto degli altri e, una volta dentro,avvertivi subito il
penetrante odore di pelle dei sedili che si intrecciava con quello,
asfissiante,di chiuso.
Prendevi posto
incastrandoti in una specie di cabina aperta e aspettavi.
Per ultimo saliva il
bigliettaio, che esordiva con un fragoroso “Buon giorno” e, dopo qualche secondo,
aggiungeva” A chi risponde” facendo sentire un po’ in colpa quelli che non
avevano risposto subito.
Poi, girava a fare i
biglietti, cercando di mantenersi in equilibrio appoggiandosi alle spalliere
dei sedili.
Potevi notare, a volte,
anziane che infilavano una mano nel petto e tiravano fuori un fazzoletto di
stoffa in cui erano arrotolate banconote, prudentemente custodite.
Mentre faceva il giro, il
bigliettaio sfornava battute per suscitare l’ilarità dei passeggeri che
annuivano mestamente perché consapevoli del lungo e faticoso viaggio che li
aspettava.
E, finalmente, l’autobussu
partiva.
Era allora che vedevi il
traffichio della gente. Dalle borse, venivano tirati fuori limoni e sacchetti
di carta, c’era anche chi si tappava il naso per buona parte del tragitto:era
arrivato il momento di adottare le strategie di sopravvivenza anti nausea e
anti rovesciu.
Gli uomini, invece,
iniziavano a fumare e, presto, nell’abitacolo si addensavano nuvole tossiche che
facevano bruciare gli occhi e la gola.
Qualche donna più
intraprendente protestava ma veniva ignorata con un leggero sorriso di
imbarazzo.
Mi sedevo sempre vicino al
finestrino, mi sembrava di respirare meglio perché, anche se c’era il vetro di
mezzo, avevo l’impressione di correre libera là fuori alla velocità del mezzo.
Intanto l’autobussu
iniziava l’inesorabile sequenze di curve, facendo ondeggiare i passeggeri da una
parte all’altra, come spighe di grano mosse dal vento.
Si arrampicava su per i
tornanti appesi alla montagna, sbattendo di tanto in tanto contro sfrontati
rami di noccioli; a volte sembrava in difficoltà e allora si cercava di
aiutarlo spingendo i sedili nell'illusione di farlo proseguire.
Poi c’era la discesa verso
la marina e, in questo caso ci si aggrappava al sedile davanti tirandolo verso
di noi nel tentativo di frenare insieme all’autista.
Avvertivi distintamente
l’apnea dell’autobussu e soffrivi con lui.
Per far passare il tempo,
i passeggeri che non erano disturbati dalla nausea, chiacchieravano fra loro
del più e del meno. Si scambiavano notizie sul perché del loro viaggio e, se
abbassavano la voce, capivi subito che stavano occupandosi dei fatti altrui.
Ogni tanto, il suono del
clacson immetteva una nota di allegria e faceva sussultare chi, senza volerlo, si
era appisolato.
Capitava, a volte, che la
testa o il braccio del dormiente scivolassero sulle tue spalle, e che
tu rimanessi immobile, incerta se svegliarlo o sopportarlo. Fortunatamente,
però, lo scivolamento era avvertito anche da lui che ritornava in
posizione,vergognandosi un po’ in un mormorio di scuse.
Molti scendevano alle
fermate intermedie.
Li guardavo alzarsi
barcollanti, gli abiti stropicciati. Salutavano muovendo appena le labbra, la
saliva secca in gola e sparivano pallidi come la nebbia.
Io proseguivo quasi sempre
verso la città e, quando iniziavo a vedere il mare,mi illuminavo perché il
viaggio era finito.
Scendendo dall’autobussu,
avvertivo un leggero stordimento e la prima cosa che facevo era andare a
comprarmi dei panini al burro per calmare il mio stomaco che, per tutto il
viaggio, mi aveva tiranneggiato con i suoi movimenti sussultori.
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