I NOCCIOLETI, LE STELLE
E LA MIA DISLESSIA
* Achille Baratta *
Per me, dislessico, ricordare alle soglie del
duemilasedici le notti d’agosto nella mia infanzia vissuta nella nostra
terrazza in località Pirrione, nell’agio di Ucria, è un privilegio. Nel buio e
nel silenzio scandito dai canti dei grilli e dall’odore acre dei noccioleti,
mio padre ed io, quasi presi da una intesa mai dichiarata, guardavamo il cielo e
quelle meraviglie astrali che sono le stelle.
Si stava lì, per ore, su una sedia sdraio a contemplarlo,
mio padre che le conosceva quasi una per una, me le descriveva a tratti, a
pause, quasi un contagocce della conoscenza, dandomi il tempo di assimilare
quello che per me era un mondo sconosciuto, ma di infinita bellezza.
Era ed è una visione gratuita e per tutti, ma
sembrava che fosse solo per noi privilegiati di quel godere. Venere, la più
bela, ma come si può dare l’appellativo di più bella in un firmamento di
stelle? Ma ci può essere comunicazione senza parole? In genere molte, talvolta
troppe.
Papà insiste nel raccomandarmi di dare risposte
brevi, formule sintetiche capaci di concentrare lunghi discorsi che lì
sarebbero state certamente fuori luogo. Ha ragione, ma la mia natura è
un’altra, ma non si dice.
Penso che ogni parola necessita sempre,
perlomeno, di un’altra che la aiuti a spiegarsi. Così scriveva José Saramago,
nel suo “Il quaderno”:
“Le cose sono arrivate a un punto tale che, da qualche
tempo a questa parte, ho preso l’abitudine di anticiparmi le domande che
presumibilmente mi faranno, procedimento facilitato dalla conoscenza previa che
son venuto accumulando sul tipo di argomenti che maggiormente interessano i
giornalisti. E il divertente sta nella libertà che mi prendo all’inizio di una
di queste enunciazioni. Senza dovermi preoccupare degli inquadramenti tematici
che ogni specifica domanda necessariamente richiederebbe, anche se non fosse
questa la sua intenzione dichiarata, lancio lì la prima parola, e la seconda, e
la terza, come uccelli ai quali sia stato aperto lo sportellino della gabbia,
senza sapere bene, o non sapendo affatto, dove mi porteranno”.
Per me, dislessico, parlare e scrivere diventa
un’avventura o, meglio, un impegno quotidiano senza sosta, cercare di ricevere
la comunicazione scritta e trasformata in ricerca metodica di un cammino che
porti verso chi sta ascoltando, tenendo sempre presente che nessuna
comunicazione è permanente e che spesso è necessario tornare indietro
all’enunciato. Ma l’aspetto più interessante in quella esperienza di mezzo
agosto è riscoprire che la tematica di guardare le stelle che le notti
illuminano per dare visibilità, per noi, finiva inverosimilmente per rilevare
l’occulto, l’appena intuito o presentito, che di colpo diventa un’evidenza per
pochi, di cui noi stessi eravamo i primi a sorprenderci, come che da quel buio
aprendo gli occhi ha percepito una luce improvvisa, un bagliore, insomma vado
imparando da ogni stella, quasi un dialogo interminabile a due.
Per la mia dislessia, ecco una buona riflessione
per questo vuoto di apprendimento; insomma, una lezione a cielo aperto per
imparare le parole di ogni giorno ma, soprattutto, per leggerle e per
scriverle.
Ecco un tentativo di approccio questo argomento, la cui conoscenza, ogni
giorno, si evolve e dà soluzioni a chi, come me, soffre e ha sofferto e sul
quale, spero, si apra in seguito un dibattito.
Philip Schultz, premio Pulitzer, nel novembre
del duemilaquindici, per conto di Donzelli Editore, pubblica “La mia
dislessia”.
Philip Schultz (1945), ebreo di origine russe,
ha insegnato alla New York University, ed è il fondatore di una prestigiosa
scuola di scrittura: Writers Studio.
Anche lui ricordando la nostalgia del passato e
del ricordo scrive:
“Noi siamo le
storie che raccontiamo, le cose che creiamo e inventiamo, siamo qualcosa di più
delle risposte che diamo alle domande, qualcosa di più perfino dei nostri
limiti: siamo i misteriosi e lunatici sogni che in qualche snodo troviamo il
coraggio di fare e, a volte, di raccontare agli altri.
Lo scorso marzo sono stato a un convegno organizzato da
Smart Kids with Learning Disabilities, una straordinaria associazione fondata
dieci anni fa da Jane Ross a sostegno dei genitori di bambini con problemi di
dislessia e di disturbi di attenzione, per ricevere un premio. L’evento,
intitolato «Il limite è il cielo», al Westport Country Playhouse, era stato
organizzato in occasione del declino anniversario di Smart Kids ed eravamo
riuniti per festeggiare i «talenti nelle arti, nelle scienze, nell’atletica e
nell’ingegneria». Per l’occasione ho letto il primo capitolo di questo libro e
alla fine, mentre firmavo un mio libro di poesia, molti genitori di bambini con
problemi di apprendimento, ispirati da quella che era stata considerata la
confessione di una storia personale, vollero raccontarmi le loro storie”.
E così si va di storia in storia, ma raccontate
le vostre, per tornare alle mie, vi racconterò che mio padre Vincenzo,
progettava e segnava materialmente sui muri gli orologi solari, voleva così
ricordare a noi mortali che il tempo è legato al cielo, come al sole alla terra
e che, quindi, al linguaggio delle stelle e quello della poesia è in definitiva
un vero inno a Dio creatore.
Lui, sospirando, diceva: l’ignoranza è il
peggiore dei mali.
È con questa convinzione mi sono battuto tutta
la vita perché la luce delle stelle e della stessa luna non fosse solo per
pochi ma per tutti in un mondo dei buoni, fuori dalle differenze culturali che
ai nostri tempi costituivano insormontabili barriere sociali.
La dislessia così vissuta e così concepita
diventa un nuovo mondo utopico di chi non sapeva leggere né scrivere.
Essere di Paese è un po’ essere dislessico ma
anche questo aspetto è da superare perché l’orgoglio di esserci non può essere
legato a luoghi nella attuale globalità di cui queste pagine sono testimonianza.
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