FIMMINI
ALL’ANTU
*
Giuseppe Salpietro *
Cosi come in altre comunità contadine
si attendeva che il tempo arrivasse per la vendemmia o la trebbiatura, ogni
anno ad Ucria, ma anche nei vicini Comuni di: Raccuia, Castell’Umberto, San
Piero Patti, Tortorici, San Salvatore di Fitalia e chissà in quanti altri, si
aspettava con trepidazione quel breve lasso di tempo destinato alla raccolta
del prezioso frutto delle nocciole.
Vera manna dal cielo, panacea di tutti
i mali economici.
Era il periodo dell’anno nel quale si
tirava finalmente un sospiro di sollievo dopo tanti, certi, affanni.
Finalmente, infatti, potevano entrare a tutto guadagno del magro bilancio
domestico, anche un pò di “piccioli” per fare fronte, con più tranquillità,
alla prevedibile penuria dell’imminente inverno.
“Ci nné, sunnu carichi ??? Ma quali …. , l’annata è scarsa”.
Attesa tanto forte nella vita delle
comunità, non foss’altro per l’opportunità offerta ai compaesani di stare a
laborioso contatto non solo di una natura ancora piacevolmente mite, ma anche
di tanti amici. Situazione che, si comprenderà, favoriva certo la
socializzazione, ma talvolta, manco a dirlo, lo sbocciare di nuovi sentimenti
tra i giovani “chi tra na nucidda e l’autra ..”.
S’incominciava con la raccolta
all’inizio del mese di settembre, per proseguire, tra una “passata” e l’altra (
non meno di tre ), orientativamente fino alla prima quindicina del mese di
ottobre, quando restavano a terra soltanto foglie secche (fugghiacii) e
“friscaletti”. Per essere certi che non fosse rimasto nulla per i roditori,
ogni foglia veniva spostata e rispostata con cura come fosse un’indagine
condotta dal Reparto Investigazione Scientifiche R.I.S. a seguito di un
efferato delitto di sangue.
Magari avessero inventato un metal
detector capace di utilizzare l’induzione elettromagnetica per rilevare la
presenza delle nocciole.
Era questione di salvamento di vita,
di “piddottu”.
L’intero nucleo familiare era
naturalmente “precettato” per la raccolta, confidandosi anche nell’usuale
collaborazione tra parenti, amici, “cummari e cumpari”, che si offrivano
spontaneamente, se liberi da altri impegni, a fari “du iurnitti”.
Precedute da chi provvedeva a scuotere
con forza ( cutulari ) ogni ramo del grosso arbusto, determinando la
precipitazione del frutto al suolo per violento distacco, le donne provvedevano
all’aggressione sistematica delle “rasule” con una tecnica sperimentata per
secoli e tramandata per esperienza, che sembrava un attacco strategico. Esse
infatti, come fossero voraci cavallette ed in numero variabile in relazione
alla bisogna, anche trenta e più, si disponevano all’antu, e così in fila e con
il “culo a ponte”, procedevano da valle a monte senza lasciare nessun
fazzoletto dell’appezzamento inesplorato dalla vista e dal tatto.
Più volte mi toccò da ragazzo
dissetare le operose donne. Era infatti incarico affidato ai più giovani della
compagnia ( e picciriddi ), quello di andare a riempire di acqua freschissima
“u bummulu”, presso la più vicina sorgente. Attività che risultava un vero piacere,
quando si trattava di interrompere la noia della raccolta, che a dire il vero
non appassionava nessuno se non il proprietario della “robba”, ma vera
“camorria” quando la sorgente era troppo lontana in terreni per loro natura
scoscesi e non agevoli.
Il “faddali” colmo al punto da piegare
la schiena delle energiche raccoglitrici, veniva periodicamente alleggerito dal
“misarolo”, che faceva “sdivacare” il frutto raccolto all’interno di usurati
sacchi di juta per poi depositare il prodotto sopra una superficie realizzata
utilizzando rustiche assi di legno allineate ed esposte al sole settembrino per
favorirne l’asciugatura dall’umidità residua. Lì, di tanto in tanto, venivano
mescolate con una pala di legno “paliati” e nel contempo, private dalle inevitabili
nocciole marce, vuote o rosicchiate al loro interno da voraci roditori, via via
intercettate dagli occhi attenti del proprietario che ci teneva a non vedere
deprezzato il proprio prodotto.
Sembrerà strano, ma la “paliata” per
chi sapeva ascoltarla, era vera musica sinfonica. Come un’orchestra di cento
strumentisti, specie a sera, si sentiva in ogni angolo quel rumore sordo
prodotto dallo strofinio dei gusci sul pavimento di legno, che diventava suono
allegro, scoppiettante come giochi d’artificio o tintinnante come “piccioli
spicci” in caduta libera, quando, come fosse una cascata, le nocciole
ricadevano le une sulle altre al suolo.
All’antu, tutti per soddisfare i loro
bisogni corporali, dovevano allontanarsi cercando riparo dagli sguardi altrui
dietro qualche asperità del terreno, e si badi bene, non era d’uso utilizzare
carta igienica extrasoffice a sette veli sovrapposti, bensì più ruvide foglie
recuperate sul posto, escludendo, ovviamente, ficari e ficareddi.
Nei suoi ritmi giornalieri cadenzati,
la raccolta era ed è ancora oggi, naturalmente interrotta dalla sosta per la
colazione ed il pranzo. Ai nostri giorni, liberati dal bisogno, immagino che il
menù sia meno parco e ricco di salumi e prosciutti blasonati, ma non lo
metterei a confronto con quello consumato per secoli nelle campagne nei momenti
della pausa, vera celebrazione di un rito antico. Contribuivano al sollazzo,
l’utilizzo dello “scorpu”, legnetto modellato come fosse una posata in
sostituzione delle forchette, o l’utilizzo di sacchi semipieni come più comode
sedute, innanzi a “mappine” stese al suolo, rigorosamente a righe trasversali
colorate, pronte ad ospitare per brevi attimi: “alivi”, “pipareddi”, “tumazzu”,
“provula”, “patati e ova vugghiuti”, “pumadoru” (rigorosamente insaporite con
il sale), “pani i casa” e “vinu”..
Ed intanto, “cugghiunannu e cuntannu
frastocchi”, si costruiva anche grazie “e fimmini all’antu”, il benessere
quotidiano di una comunità che sulla nocciola, e non su altra risorsa, contò
per assicurasi la sopravvivenza nei secoli.
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