NOTERELLE UCRIESI, 2
’U
zzu Canniloru ovvero Centu lupi ‘nta ‘na macchia
* Nino Pinzone
“Palagonia” *
“Zzu Canniloru, ‘zzu Canniloru!” oppure “Centu lupi ‘nta ‘na macchia”!. Con
queste espressioni (e con un tonalità
che è impossibile riprodurre per iscritto) ci apostrofava spesso mia
madre nel caso in cui io o uno dei miei due fratelli esagerassimo o la sparassimo
troppo grossa nel riferire di qualcosa. Come in molti altri casi, il motivo (l’aition, direbbero i dotti) dell’apostrofe
è legato ad un divertente aneddoto, ad un raccontino che aveva per protagonista
il non meglio identificabile (almeno per me) “zzu Canniloru” (zio Candeloro), raccontino
che molti di quelli più avanti con gli anni forse ricorderanno e che voglio
riproporre, così come lo raccontava mia madre, con la (spero non vana) speranza
che i più giovani ne conservino il ricordo.
Se ne tornava
costui dalla campagna (Belinu, mi par di rammentare), quando, senza che se ne
accorgesse, gli si impigliò la manica della giacchetta in un rovo. Temendo che
qualcuno o qualcosa lo stesse afferrando, si fece prendere dal panico e scappò a
rotta di collo verso il paese. La madre se lo vide arrivare stravolto, trafelato
e con la giacca strappata, e gli chiese con apprensione cosa mai gli fosse
capitato. Quegli le rispose che aveva visto “centu lupi ‘nta ‘na macchia” e che era scappato perché se lo
volevano mangiare. “Centu? Nun po’ essiri”,
disse la madre. E il figlio: “Centu no,
ma cinquanta erunu sicuru!”. Di fronte allo scetticismo della madre, dei
familiari e di qualche vicino nel frattempo accorso a godersi il teatrino,
Canniloru andò via via abbassando il numero dei lupi che avrebbe visto dentro
una macchia, fino a ridurlo a uno.
“Ma di chi culuri era?”, gli chiese
ridendo uno dei presenti. Al che Canniloru: “E comu ‘u vidia? Ia cca, iddu a rocca i Sciliuni!”.
I lettori più
avvertiti saranno sicuramente andati con la mente all’analogo conosciutissimo
episodio (riferito anche dal Pitré) che aveva per protagonista un puparo, il
cui nome variava da zona a zona, ma che nel messinese aveva quello di
Lisciandru, forse perché don Lisciandru era il nome del puparo più noto nella
città di Messina, dove faceva esibire i suoi pupi in un teatrino sito in via Palermo,
diventato in tempi più recenti Teatro Valli per poi sparire del tutto.
Durante una
rappresentazione, il puparo, preso dall’entusiasmo e dalla foga dell’azione, se
ne era venuto fuori con una roboante esclamazione: “E allora Orlando, con un
colpo di Durlindana, uccise cento Saraceni!”. E i presenti: “Cala don
Lisciandru!”. Il puparo, incalzato dal pubblico, sempre più divertito, andò
calando il numero dei mori uccisi, fino a quando spazientito non sbottò: ” E
allora Orlando, con un colpo di Durlindana, uccise a tutti questi grandissimi figli
di b…..” (una parola che non riporto per decenza, ma che fa rima col nome della
celebre spada del paladino di Carlo Magno).
Come dicevo, con la
variante del nome del protagonista e della località in cui si sarebbe verificato,
l’episodio si racconta in tutta la Sicilia. E’ lecito dunque avanzare il
sospetto che anche quello dello Zio Candeloro abbia avuto vicenda in qualche
modo simile, anche se da una mia veloce inchiesta, limitata però ai paesi
viciniori, non ho avuto riscontri. A garantirne l’autenticità non basta il
fatto che il nome, anche se non molto diffuso, era comunque presente
nell’onomastica ucriese; né che i toponimi riferiti (Belinu, Sciliuni) si
riferiscono a località del territorio del nostro paese.
La certezza che
l’episodio sia storico e che sia accaduto ad Ucria può vacillare anche
guardando a quanto accaduto in riferimento ad un altro nostro modo di dire
tradizionale.
Quanti di noi non
hanno sentito chiosare le parole di chi si rassegnava alla provvidenza divina
con l’espressione “Comu voli Dia!”, con
la frase “dissi Fravetta, quannu si visti
ecc. ecc.”? A lungo non mi sono posto il problema della genuinità e dell’ucriesità
dell’episodio, finché, un giorno, un collega catanese non completò un mio “Comu voli Dia!” con “dissi Bavetta”, come mi disse fosse
usuale a Catania, e non “Fravetta”,
come si dice invece a Ucria. Capii allora che si trattava di uno di quegli adattamenti a realtà locale di un episodio e
di un detto di origine allotria e che ha una più larga area di diffusione, con
fenomeno perfettamente noto agli studiosi di tradizioni popolari.
Poiché non è
verisimile che un detto ucriese si sia diffuso a Catania e che invece è più
logico pensare che sia successo il contrario, la reputazione del povero
“Fravetta”, colpevole solo di avere un soprannome che faceva rima con “Bavetta”
e di avere dei compaesani non proprio benevoli nei suoi confronti, va dunque del
tutto riabilitata.
Che sia successo qualcosa
di analogo per l’aneddoto dello zio Candeloro? Sarebbe interessante venire a
capo dell’enigma, magari con l’aiuto della memoria di qualche anziano ucriese.
6
gennaio 2016
Nino
Pinzone “Palagonia”.
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