NOTERELLE UCRIESI 8
Nino Pinzone “Palagunia”
Ucria
e Santu Prazzitu (San Placido)
Nel
ricco repertorio di cunti e storielle
con cui quell’indimenticabile personaggio che fu la gnura Nina ‘a Taddarita
soleva intrattenere gli astanti (in particolare durante le veglie funebri di
cui era assidua e ben accolta frequentatrice) c’era un racconto dal titolo ‘U
gigghiu i Santu Prazzitu, di ambientazione ucriese. Ebbi occasione di
leggerlo, anni fa, nella trascrizione dattiloscritta fattane da mio padre sotto
dettatura della gnura Nina e non vi
nascondo che ebbi allora qualche perplessità in considerazione soprattutto del
fatto che non mi risultava che San Placido rientrasse nel ricco panteon di
santi degli Ucriesi e delle loro chiese e cappelle.
Dovetti,
però, presto ricredermi. Circolava in paese, tempo addietro,
una interessantissima memoria storica composta intorno agli anni Sessanta da un
eminente sacerdote nostro compaesano che tracciava le linee della religiosità
dei suoi compaesani nella prima metà del Novecento e lamentava un certo
decadimento, dovuto, secondo il suo modo di vedere le cose, ad una certa
incuria da parte dell’Arciprete del tempo, di cui era stato sfortunato
antagonista ai tempi del concorso per la parrocchia di San Pietro. Riconosceva,
onestamente, i meriti dell’Arciprete (tra cui quello di aver rifatto il bel
pavimento della chiesa madre), ma lamentava un depauperamento degli arredi
sacri che sarebbero stati, a suo modo di dire, manchevoli rispetto al passato.
Non c’rta pù traccia, tra le altre cose, anche di una pregevole statua di San
Placido con icastonata la reliquia di un dente del santo. Ecco l’anello
mancante. Il legame degli ucriesi con il copatrono di Messina era dunque reale,
come evidenziato appunto dal racconto della gnura
Nina.
Molto
interessante la notizia relativa alla reliquia di San Placido. Era questi un
monaco benedettino inviato da San Benedetto a fondare un monastero in Sicilia,
il secondo dopo Montecassino. Secondo quella che, probabilmente, è una leggenda
risalente alla fine dell’XI secolo, Placido, con altri suoi compagni, sarebbe
stato martirizzato a Messina il 5 ottobre del 541 durante un’incursione di
pirati saraceni.
Nonostante che non si
avesse più notizia della sua tomba, i messinesi erano rimasti fedeli al culto
del discepolo di San Benedetto, culto che subì un efficacissimo revival in
seguito ad un episodio verificatosi nel 1588. Il parroco della chiesa di San
Giovanni di Malta (dietro la Prefettura, nei pressi di Villa Mazzini) per dare
più luce alla chiesa decise di cambiarne l’orientamento, aprendo tre grandi
portali là dove c’era l’altare. Quale fu la sorpresa quando, dopo avere
smontato quest’ultimo, a pochi centimetri di profondità venne ritrovata una
tomba con dentro quattro scheletri. Il buon parroco entrò subito in
fibrillazione e comunicò la cosa all’arcivescovo. Ai loro occhi non c’erano
dubbi: consapevoli del fatto che i cristiani dei primi secoli erano soliti
costruire chiese sul luogo della tomba dei martiri, ne dedussero che le ossa
ritrovate durante i lavori dovessero esser appunto ossa di santi martiri; e di
chi altri potevano essere se non dei santi Placido e compagni, gli unici
martiri ad essere attestati per la città dello Stretto? Il vescovo in persona
si recò dal Papa Sisto V con una delegazione. La risposta del papa fu positiva
e sancì il convincimento che quelle erano proprio le ossa di san Placido.
In
città scoppiò il finimondo. Finalmente anche i messinesi disponevano di
reliquie (naturalmente in aggiunta al capello della Madonna della Lettera…) da
contrapporre a quelle di Santa Rosalia e di Sant’Agata di cui andavano fieri gli
odiatissimi palermitani e catanesi. In città vennero organizzate processioni,
si eressero baldacchini e archi trionfali e si accesero fiaccole e luminarie
per le vie cittadine; il fervore religioso raggiunse livelli elevatissimi,
anche perché si diffuse subito la voce dei primi eventi miracolosi. Arrivarono
da ogni dove richieste di reliquie che furono in qualche modo soddisfatte. A
questo è dovuto se resti del santo, oltre che a Messina e nel messinese (Castel
di Lucio), si trovino anche in Puglia (Poggio Imperiale), Liguria (Ceriana),
Calabria (Seminara) e nel catanese (Biancavilla). E’ probabile che il dente di
San Placido incastonato nella statua esistente in passato nella chiesa madre di
Ucria vi sia arrivato in quelle circostanze, magari col patrocinio di qualche
potente locale residente a Messina, come era appunto il caso di Pietro Marquet,
barone di Ucria negli anni del ritrovamento delle reliquie. Non si dimentichi,
per spiegare mrglio la concessione della reliquia, che la parrocchia di Ucria apparteneva
in passato alla diocesi di Messina e non , come oggi, a quella di Patti.
Recuperato
San Placido alla storia di Ucria, il racconto potrebbe qui terminare, ma il
dovere di cronaca mi impone di andare oltre e aggiungere altre notizie, sulla
scorta di quanto ebbe a dire in una interessantissima conferenza tenuta al
Rotary Club di Messina dal grande storico messinese Salvatore Calderone, mio
riverito maestro all’Università di Messina.
Passarono
gli anni e il culto di San Placido fu sempre in auge nella città peloritana, di
cui era divenuto copatrono. Dopo il terribile sisma del 1908 si pianificò anche
la costruzione della Prefettura (nelle intenzioni doveva essere la Grande
Prefettura, punto di convergenza di tutte le prefetture siciliane…). Iniziati i
lavori, cominciano a venir fuori resti archeologici e ossa in grande quantità.
Si trattava di una necropoli romana di età imperiale, come appurò Paolo Orsi,
il padre dell’archeologia siciliana, subito giunto sul luogo per coordinare i
lavori di scavo. I lettori più attenti avranno già capito: la prefettura è
contigua alla chiesa di san Giovanni di Malta dove nel 1588 erano state
rinvenute le ossa di San Placido. Da qui a concludere che queste ultime altro
non dovevano essere se non le ossa di qualche ospite della necropoli antica,
che non si sarebbe mai sognato di ..assurgere agli onori degli altari, il passo
è breve. A parlare in questi termini ai responsabili della parrocchia si
rischia naturalmente di essere tacciati di blasfemia. Guai a dubitare delle sante
reliquie, racchiuse nel 1616, in un sacello risparmiato sia dal terremoto del
1918 che dai bombardamenti della II guerra mondiale.
Va
da sé che la falsità delle reliquie nulla toglie alla santità di Placido, che i
messinesi continuano piamente a venerare, sia pure in maniera ridotta rispetto
a quanto non facessero in passato. Fa però riflettere sulla credulità degli
uomini, su quanto sia facile, in mancanza di efficaci metodi di controllo,
farsi suggestionare, farsi convincere di determinati fatti.
Le
moderne tecniche di indagine consentono oggi agli archeologi di non prendere
abbagli troppo grossi quando si tratta di datare i reperti. Se nel ‘600 il
progresso tecnico e metodologico avesse raggiunto livelli più avanzati, né i
messinesi (né lo stesso Sisto V che sancì con una bolla l’autenticità delle
reliquie) si sarebbero mostrati così ingenui e creduloni.
Mi
piace credere, anche se, onestamente, non esistono argomenti per rafforzare
questo convincimento, che la scomparsa della statua e del dente di san Placido
ad Ucria, abbia in qualche modo a che fare con una presa di coscienza, da parte
dell’allora arciprete (o di qualche esponente della curia vescovile di Patti),
della probabile falsità della reliquia in oggetto.
A
conclusione voglio anche ricordare (come, con una venatura
di campanilismo, non mancavo di fare con i miei studenti durante le mie lezioni
introduttive al corso di Storia romana) che l’episodio delle ossa di San
Placido aveva un illustre precedente nella Padova del tardo medioevo. Anche qui,
durante lavori di scavo, vennero ritrovate delle ossa, tra l’altro di
dimensioni ragguardevoli, cosa che fece pensare appartenessero ad un individuo
eccezionale e non solo fisicamente. Fu un noto erudito locale a togliere ogni
dubbio, sentenziando che le ossa appartenevano senz’altro allo scheletro del
troiano Antenore, mitico fondatore della città, di cui parlava lo stesso
Virgilio nell’Eneide. Fu allora che i patavini, pieni di orgoglio, eressero la
tomba di Antenore, monumento ancor oggi visibile tra le principali attrazioni
turistiche, con la Cappella degli Scrovegni e il santuario di Sant’Antonio, per
i visitatori della città veneta. Ma è
risaputo che a quei tempi, progresso tecnologico a parte, i confini tra fatti
leggendari e fatti storici erano ancora molto ma molto labili.
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