venerdì 15 luglio 2016
LA “CRUNA DELL’AGO -FONDATORE RANIERI NICOLAI”, come “Crescere assieme per crescere tutti” Iole Nicolai
LA “CRUNA DELL’AGO -FONDATORE RANIERI NICOLAI”, come “Crescere assieme per crescere
tutti”
Iole Nicolai
“La Cruna dell’Ago – fondatore
Ranieri Nicolai”, grazie alla dedizione e caparbietà di chi ci ha creduto sin
da subito (su tutti, Maria Scalisi ed i miei genitori) e la affettuosa e
fattiva partecipazione di tanti amici della nostra comunità (e non solo), è
diventato, in poco tempo,
un atteso appuntamento con le idee, la
memoria, le esperienze, le tradizioni, la nostra cultura…e tanto altro del
nostro territorio. Un unicum, nel suo genere!
Ricordate?
Nell’ultimo numero del 2015, avevo scritto sulle “ragioni che portarono alla fondazione di quel giornalino di una
parrocchia di un piccolo paese”, di cui questo giornalino è ideale
prosecuzione e di cui ha inteso raccogliere l’eredità, nel solco della
continuità e del rispetto dei valori e dei principi che indussero Ranieri e
quel “gruppo di amici” a fondarlo.
Ed oggi che “La Cruna dell’Ago – fondatore
Ranieri Nicolai” è entrato nuovamente nei cuori e
nella quotidianità della nostra comunità (e non solo), ci riempie il cuore di gioia riscontrare quanta voglia di partecipare e
di condividerne i principi ed i propositi sia stata capace di generare questa
esperienza.
L’“armonia, l’amicizia, la voglia di creare un luogo di incontro e di
confronto con l’obiettivo di riaccendere la voglia di stare assieme, di essere
voce critica e propositiva nel paese, per dare spazio alle istanze di
rinnovamento anche ad Ucria (il nostro “centro del mondo”)ma
cercando, quanto più possibile, di liberare il cuore da tutto quello che
impedisce di comprendere il senso della vita e l’insegnamento delle parole di
Dio”, sono ancora oggi i principi ispiratori di questa
esperienza che ha le dichiarate radici nel lontano 98.
Ricordate? La “La cruna dell’ago” prima di tutto è
stata una “esperienza di comunità”;
una esperienza che, per dirla con Ranieri,
“è solo un input che serve ad innescare
un circolo virtuoso di iniziative volte alla riscoperta dei più profondi valori
umani e cristiani quali: l’amore, l’amicizia, la fede, la fratellanza...”
Da qui, procedendo su questa
strada, vogliamo rilanciare, per crescere ancora e far diventare questa “esperienza
di comunità” una realtà consolidata e radicata nel nostro territorio.
Il
punto di partenza è la comune consapevolezza che un impegno per il bene comune
della nostra comunità e del nostro territorio risulta tanto più efficace quanto
più chiara è la coscienza della propria identità, cioè dei primari valori cui
ci rifacciamo e da cui ci sentiamo uniti. Insomma, il nostro scopo sociale.
Da
qui il naturale approdo alla determinazione di costituire un’associazione
animata dalla tensione alla valorizzazione di questi principi ed al
raggiungimento degli obiettivi prefissati.
Per
far ciò, ci proponiamo di promuovere e valorizzare al meglio le
risorse e le competenze umani e culturali esistenti sul nostro territorio,
dando vita ad una sorta di “laboratorio” sempre aperto ad approfondimenti e
confronti, nel quale tutti si sentano coinvolti, liberi e stimolati ad
intervenire e a contribuire con il loro punto di vista e con le proprie idee.
Ed
allora…buon lavoro a tutti noi!
LA VALLE DEL TORRENTE NASO - Domenico Orifici
LA VALLE DEL TORRENTE NASO
Domenico
Orifici
L’uomo e il suo territorio.
La vallata che, da Floresta, fra
due catene di monti opposti, Il Pizzo Corvo e il Santa Rosalia, in lieve e
costante declivio, si adagia sulla costa del Tirreno, è una delle più belle e
fertili dell’intero territorio nebroideo. Fu il Sinus crio dei romani,
l’insenatura che portava alle fredde cime dei Monti Nebrodi, che, forse, diede
il nome alla città di Ucria (U Crio; U=
urbs = città; crio= freddo = città del freddo) e a Sinagra (Sinus crio =sinus=
insenatura; crio = freddo- insenatura che portava ai luoghi freddi).
Di certo, che i romani conoscessero questi luoghi, c’è che in località Arelluso del comune di
Ucria, nel 1965, fu rinvenuto, nel
corso di scavi della sovrintendenza di Siracusa, a qualche metro di profondità,
un forziere di monete romane del secondo
secolo avanti Cristo, (nota di Carmelo Rigoli in Ucria, Città di Monte
Catello) epoca in cui si combatteva la prima guerra punica nelle acque del
Tirreno, meglio precisato mare di Milazzo. Gli storici riferiscono che in quel
periodo i nostri boschi furono depauperati degli alberi d’alto fusto per
costruire gli scafi col rostro, usati nelle battaglie contro i cartaginesi.
Il torrente in piena avrebbe trasportato i grossi tronchi alla sua foce
dove venivano recuperati. Nel periodo feudale i monaci che operarono nelle
terre di Sinagra, Ucria e Raccuia
indirizzarono gli abitanti a coltivare nocciole, gelso, olive e agrumi e a
costruire mulini nella fiumara di
Ficarra, Sinagra e Ucria, dando un ‘impronta di grande ricchezza a tutta la
vallata.
Di converso furono costruiti
opifici per la lavorazione dei bozzoli del baco da seta, per l’estrazione
dell’olio d’oliva, per la lavorazione della nocciola e degli agrumi, compresa
l’estrazione dell’essenza di limoni, arance e mandarini, con grande impulso
all’occupazione maschile e femminile. Con un privilegio del Re Ruggero I, nel novembre del 1144, si
autorizzavano i monaci del convento del Fico di Raccuia a costruire mulini
nelle fiumara di Sinagra e Ficarra (nota Michele Fasolo- alla ricerca di Focerò
- documento n°16).
Così, da data che non siamo in condizioni di stabilire, il territorio si trasformò una macchina che
produceva ricchezza: lavoro per tutti e frequenza costante dei commercianti
per accaparrarsi i bozzoli del baco da
seta, nocciole, olio e agrumi. A testimoniare questo momento magico sono i
sontuosi palazzi e le chiese, adornati per fino con oro zecchino, fiore
all’occhiello dei nostri paesi. Sui Nebrodi” la produzione della seta è
attestata per la prima volta nel 1050 in un resoconto della Genizza del Cairo
che documenta l’acquisto da parte di un mercante ebreo di partite di seta di Demenna (non ben definito paese dei Nebrodi
e da cui prende il nome la Valdemone)” cfr Salvatore Mangione e Gaetano
Miracula - C’era una volta il baco da seta- Natur Club Sicilia-.cap. 15, pag
26.
Fino agli anni sessanta dai nostri centri abitati, ogni mattina, si
muovevano centinaia e centinaia di operai per la raccolta e la coltivazione delle olive, degli agrumi e delle
nocciole. I commercianti venivano da paesi lontani e si contendevano i
nostri prodotti, pregiati per gusto e qualità. Le lotte sindacali, riavviate
con la fine del fascismo, costrinsero i proprietari ad abbandonare lentamente
la coltivazione della terra, determinando disoccupazione e crisi economica in
tutto il territorio. La cosa fu aggravata da una politica governativa deleteria
che sancì l’abbandono della proprietà ad un ma inesorabile destino.
Nei territori di Sinagra ed Ucria, negli
anni ’80, erano fioriti delle fabbriche manifatturiere che fornivano indumenti
alle più importanti firme nazionali, dando un certo impulso all’economia del
territorio, ma non ebbero fortuna: la concorrenza dei paesi dell’est costrinse
le ditte a chiudere e portarsi i loro opifici in quegli stati dove la
manodopera ha un costo molto inferiore che da noi.
Questo è il quadro con cui il nostro territorio
si presenta al terzo millennio: un quadro disarmante per il futuro della
gioventù che fa intravedere il totale
abbandono dei nostri paesi.
Non ci sono più posti di lavoro dietro a una scrivania: il lavoro bisogna inventarselo e con
serietà portare avanti i progetti. Questo si può. A Sinagra in questa direzione
si sono mossi alcuni giovani che hanno
creato prodotti che sono fiori all’occhiello del territorio: parlo dei
fratelli Borrello che hanno scoperto il suino nero dei Nebrodi e oggi sono
autori di prodotti di eccellenza noti in mezza Europa, della Caleg che fabbrica
pellet, dei fratelli Caprino che lavorano, valorizzano ed esportano le nocciole
dei Nebrodi, dei fratelli Vinci che producono calzature di alta qualità
vestendo anche squadre di calcio come il Camerun e la Corea del Sud, della
falegnameria Russo e, infine dei fratelli Naciti.
Bisogna che il nostro territorio, col suo lussureggiante verde del
nocciolo, dei giardini, dell’argenteo ulivo, dai mille antichi sentieri, dalle
infinite e fresche sorgive, dalla fiumara con limpida e abbondante acqua, si
ponga all’attenzione delle menti creative dei nostri giovani per essere
trasformato in un’oasi di bellezza, di attrazione turistica, di produzioni
eccellenti. Come non immaginare i giovani di Ucria, Raccuia, Sinagra … tutti in
armonia fra loro, protesi a fare del territorio un Eldorado? Sogno il
territorio coltivato in forma del tutto biologico e naturale senza pesticidi,
ormoni vegetali e senza prodotti chimici con marchio riconosciuto: venire gente
d’ogni parte per rifornirsi e commercianti contendersi il prodotto.
Sogno la fiumara ricca di giochi d’acqua, di
laghetti per la pesca sportiva e quant’altro possa essere di attrazione
turistica e con essi ovunque locali di ristoro e di ricettazione.
Invito le
giovani menti di sognare, progettare e realizzare. Giorni fa
ho letto di una vallata nel trentino dove i giovani dei paesi compresi in quel
territorio idearono e realizzarono un progetto che sfrutta l’acqua della vallata per dare energia elettrica a tutto il
comprensorio. Tutti gli abitanti sono forniti di macchine elettriche e per
esse hanno costruito pubblici rifornimenti per le ricariche delle auto e
centrali per il riscaldamento di tutte le case e degli uffici pubblici utilizzando
la legna dei boschi. Hanno inoltre organizzato la coltivazione dei campi con
sistemi all’avanguardia e dato un marchio ai loro prodotti, un vero e proprio
Eldorado.
Certo, le difficoltà affiorano quando si va sul
concreto: i finanziamenti e l’opera di convincimento dei proprietari terrieri a
produrre in modo biologico. Nel primo caso si potrebbero sfruttare i
finanziamenti alle cooperative o società giovanili nei modi previsti dalla
legge e tutti gli altri aiuti a partire dal fotovoltaico e dall’eolico. Nel
secondo serviranno provvedimenti amministrativi. Serve serietà d’intenti e di
conduzione.
La ricchezza del passato, quella che portò
tanto benessere, non cadde come manna dal cielo, ma fu costruita giorno dopo
giorno, sacrificio su sacrificio da giovani meno colti e con meno mezzi a
disposizione.
Chi bene
incomincia è a metà dell’opera.
FARE MEMORIA PER FARE FUTURO - Carmelina Allia
FARE MEMORIA PER
FARE FUTURO
Carmelina Allia
Continuando nella condivisione di
notizie, spero gradite e utili, trascrivo ciò che scrisse il quotidiano di Palermo:
“L'Ora", a conferma della grandezza della figura del nostro concittadino il Sacerdote Professore Giuseppe Minissali,
di cui precedentemente abbiamo avuto l'opportunità di conoscere qualcosa
della sua vita, a servizio di grandi e piccoli, ricchi e poveri.
Mi
auguro di cuore che il tutto serva ad accrescere in ogni ucriese l'affetto,
l'ammirazione, la gratitudine per chi ha contribuito a <fare grande Ucria>.
Da
“L'Ora” quotidiano di Palermo
n.86 - venerdì 26, sabato - 27 marzo 1915.
Ucria, 24 marzo. Lutto Cittadino
Ieri hanno avuto luogo i funerali del
compianto Sac. Prof. Giuseppe Minissali Morici, fratello di questo vostro
corrispondente ordinario, il Dott. Scipione Minissali; ed essi sono veramente
riusciti solenni e degni dell'Estinto, perché tutta la cittadinanza, di tutti i
ceti e le gradazioni sociali, chiusi per lutto cittadino circoli e negozi, sospesi
gli affari e il lavoro, ha voluto accorrere a rendere l'ultimo tributo di onore
a Colui, che per quaranta anni era stato il suo Maestro e per tutta la vita
nobilissimo esempio di figlio e fratello, di Sacerdote e cittadino.
Nella Chiesa Madre, celebrata la
messa di requiem, dal pergamo disse le lodi dell'estinto il Sacerdote
Melchiorre Cigna che, predicando qui in questa quaresima, aveva già avuto modo
di conoscere ed ammirare il Sac. Minissali: la onde egli poté, tra
l'assentimento raccolto di tutta la cittadinanza, che gremiva la Chiesa, celebrare
in un discorso assai elevato, per la forma e pel contenuto, tutti i vari e
singolari aspetti della vita del Sacerdote Minissali.
Poscia, in un lunghissimo corteo, cui
parteciparono le Confraternite, le Scuole, la Società Operaia, la Società
Agricola, il Circolo Popolare Indipendente con le bandiere, il Circolo dei
Civili, le Autorità, il Clero e la Banda cittadina di Naso, la salma, trasportata
da parenti, amici e vecci discepoli, seguita dal fratello, dagli intimi e da
una folla di popolo commosso, venne accompagnata al Camposanto, ove parlarono, con
grande effusione di cuore e ammirazione profonda, lo studente in legge, Signor
Enrico Baratta di Achille, il Farmacista Galvagno Sebastiano, Presidente del
Circolo Popolare Indipendente e ,anche per ringraziare in nome della desolata
famiglia, l'Avv. Vincenzo Morici.
Numerose e belle le corone di fiori
inviate dal fratello e dalla cognata, dalle sorelle, dai nipoti, dagli a ici e
dai vari Sodalizi.
UCRIA E LA FABBRICA DI CIOCCOLATA - Achille Baratta
UCRIA E LA FABBRICA DI
CIOCCOLATA
Achille Baratta
Daniele Castellani Pirelli scrive: All’inizio degli anni Trenta Roald Dahl, uno dei più grandi
scrittori di romanzi per l’infanzia del nostro tempo, frequentava la Repton
School. È una scuola del Derbyschire, al centro dell’Inghilterra e allora era
un posto noto per le punizioni corporali a cui erano sottoposti gli allievi.
Uno dei pochi privilegi che si avevano, a frequentarlo, era legato al fatto che
una nota azienda di cioccolata, la Cadbury, regalava ai ragazzi dei prodotti
che stava testando per capire se avrebbero avuto successo sul mercato. Quel
dolce-amaro, quel mix di violenza e di golosità, ispirò a Dahl il suo libro più
noto, La Fabbrica di cioccolato.
Lo stesso mix di
violenza da noi ad Ucria non ispirò nessuno e la fabbrica di cioccolata se la
snono fatta altrove.
Come scrive Giuseppe Salpietro, ci siamo fermati a “quantu
va a nucidda”. Nel ventennio, nel periodo dell’anarchia vennero dall’alto
le fabbriche che utilizzavano la ginestra ma tutto svanì nella violenza di una
politica agrodolce che mandava a morire al fronte i nostri giovani, nati e
concepiti come carne da macello, mio
padre tra guerra e prigionia ha regalato, si fa per dire, dieci anni della sua
vita allo Stato.
La fabbrica di cioccolato, come il solaio
“Baratta”, furono una parte delle mie idee ma poi la professione e la vita
gli fecero capire che per campare non si poteva sognare l’impossibile.
A quei tempi le strade
non erano asfaltate e Ucria di fatto era irraggiungibile, un ergastolo a vita,
ogni paese era l’isola dell’isola, o meglio un puntino irraggiungibile, un
punto estremo di miseria che connetteva inesorabilmente i cosi detti ricchi e i
poveri che insieme giocavano i loro diversi ruoli della disperazione relativa e
anche della felicità giornaliera.
Anche l’accessibilità
principale è cambiata prima si arrivava da Patti, San Piero Patti, Raccuja, ora
da Capo d’Orlando e ora da Brolo e Sinagra.
Il collegamento veloce
voluto fortemente dall’onorevole Nino Gullotti e da lui fatto finanziare si è
perduto nei rigali dell’appalto, ma nessuno si domanda com’è potuto avvenire un
cosi grande affronto ad un paese puntino e soprattutto di chi è la colpa? Ma i
puntini non parlano, a noi piace tanto il silenzio della notte. Ora mi tocca
per aprire gli orizzonti citare un altro scrittore di “Repubblica”, Stefano
Bartazzaghi, nella sua rubrica Lessico e Nuvole, che scrive: “Molti anni fa una
rivista enigmistica pubblicò una crittografia mnemonica che per essere risolta
richiedeva una certa competenza geografica sulla Sicilia. L’esposto era: PER
RAGGIUNGERE SORRENTINI. La soluzione era: “Scendere a Patti”. Patti è il comune
del messinese di cui Sorrentini è una frazione. La crittografia secondo me non
era del tutto regolare. Accadde quasi sempre quando si fa enigmistica con i
nomi propri, ma accade anche che siano esempi molto divertenti. Storica la
mnemonica che aveva come esposto: 1° Bobby, 2° I Primitives. Soluzione: “Meglio
solo che mala accompagnato”.
Ora ad Ucria avere una
fabbrica di cioccolata è un pensiero sa primitives ma resta il dubbio: venendo
da Messina in autostrada quel poveretto di Bobby Solo dove deve uscire?
Da noi in Sicilia
scendere a Patti e un obbligo, si dice “Patti chiari e amicizia lunga!” ma
resta sempre quel segno netto tra disonestà e onestà, tra colpevoli e innocenti
ma gli eventi passati non si possono raccontare neanche con la cioccolata e
queste pagine sono la storia.
Ancora chiediamo “a quantu a nucidda” senza chiederci chi stabilisce u prezzu e soprattutto a che
prezzo si produce.
Il risultato concreto è
chi può scappa senza lasciare il filo d’Arianna per il ritorno. Non interessa
più, cosi la fabbrica di cioccolata. Le
zone industriali l’ultima chimera, le scuole chiudono siamo alla soglia del
niente, l’unica possibile via di ripresa il turismo non viene percorso dai vivi
contemporanei.
Ma se chiedessimo ai morti probabilmente ci autorizzerebbero
ad arredare il paese con le opere d’arte che nel nostro cimitero abbondano nel
dimenticatoio e nell’incuria delle non proprietà per uso e per legge.
Questa è la nostra
fabbrica di cioccolata bianca, per attenuarla non occorre essere rivoluzionari
basta semplicemente essere normali, pensando e onorando la nostra ginestra e al
suo fascino che non costa niente e non sottendono appalti ne esperti a titolo
gratuito, impegnati nelle aree giudiziarie.
La normalità serve anche per la cioccolata, ora che si è normalizzata la sessualità pensiamo alla
maggioranza e al suo diritto all’uguaglianza fuori logica del bastone e la
carota.
LA FARMACIA Angela Niosi
Angela Niosi
La ricordo come un posto
speciale.
Vi si accedeva scalando due
gradini, percorrevi una sorta di piccola anticamera, dove era possibile
ripararsi in caso di pioggia o quando volevi momentaneamente nasconderti,
lanciavi uno sguardo veloce sui vetri a specchio laterali e spingevi una porta
opacizzata, sulla quale ti inquietava uno stemma con due serpenti attorcigliati
attorno ad un bastone alato.
Avevo l’impressione di entrare
in un tempio.
La prima cosa che mi colpiva
erano i pavimenti, incastri geometrici che, a guardarli fisso, davano le
vertigini e ti pareva di caderci dentro come nel racconto di Alice nel paese
delle meraviglie.
Io ci speravo.
Lo sguardo impattava su un
bancone antico, intagliato con abilità, sulla cui parte inferiore una
vetrinetta convogliava il tuo sguardo.
Lì erano in mostra prodotti
cosmetici che io ammiravo con occhi sognanti immaginando il giorno in cui
anch’io ne avrei fatto uso.
Alle pareti, austere vetrine ti
guardavano dall’alto in basso; all’interno una varietà di allegre scatole
colorate incoraggiavano la guarigione.
Alle spalle del bancone, un’apertura lasciava
intuire il retrobottega. Era quasi sempre al buio ed io, nell’attesa del mio
turno, immaginavo scenari di grande magia.
Sulla sinistra si affacciava un altro locale
dove, oltre ad una scrivania, ricordo un’esibizione di articoli per neonati.
Entrando, avvertivo chiaramente un odore opaco,
chimico, sfuggito chissà come dai contenitori e un leggero sentore di umidità,
proveniente dal retrobottega, che mi accecava il naso.
Non era prevista la fila e ai bambini toccava
sempre l’ultimo posto.
Ogni tanto, qualcuno adduceva una scusa per
poter anticipare un cliente, era difficile dire di no, perché ci si conosceva,
ma mi pare di aver visto volti contrariati e udito mormorii di disappunto,
magari rivolgendosi al vicino di fila: “Tutti avimu chi fari”.
Poiché avevo tempo, osservavo con attenzione
quel che succedeva intorno a me.
La farmacista era una donna fine e delicata, una
carnagione soffice come una nuvola con piccoli spruzzi di nei.
Portava occhiali che le ingrandivano lo sguardo
e un camice sbottonato alla fine che si apriva mostrando l’ultimo pezzo di gonna.
I capelli tendevano al rossiccio e un ciuffo
prevaricatore scappava su un lato della fronte.
Aveva labbra fini, colorate di rossetto e mani
poco affusolate.
Era calma nei movimenti e dava l’impressione
che, per lei, il tempo fosse un’opportunità e non un nemico.
Parlava senza fretta e, quando rideva, le si
aprivano due fossette che si spianavano nel momento in cui ridiventava seria.
Andava avanti e indietro,
apriva e chiudeva vetrine, staccava bollini che poi attaccava sulle ricette,
intratteneva con qualche chiacchiera ed era gentile con i bambini.
Sembrava non perdere mai la
pazienza e di pazienza credo ce ne volesse molta, nel suo lavoro.
Era abile interprete
estemporanea di nomi storpiati dei farmaci, pronunciati da vecchietti senza
scuola. Spiegava infinite volte dosaggio e controindicazioni a facce perplesse
che muovevano il capo come a sembrare di aver capito e poi chiedevano: “Si’, si’ ma quantu n’aja a pigghiari di
sti pinnuli?”
Molti pretendevano che il
farmaco fosse prontamente disponibile e, se gli si diceva che c’era da
aspettare, alzavano gli occhi al cielo assumendo un’espressione volutamente
compassionevole, cercando conforto anche nello sguardo degli altri paesani che
facevano finta di commuoversi.
La farmacista era la mamma di
una mia compagna di scuola e amica di lunghi pomeriggi trascorsi insieme, nella
sua casa antica e misteriosa dove avevo la possibilità di far merenda con
panino fresco di forno, accompagnato dal salame.
A me, però, il salame non
piaceva e, di nascosto, lo lanciavo al cane che viveva con loro da molti anni.
E il cane lo afferrava al volo,
restituendomi, mi pareva, uno sguardo riconoscente.
LA LEGGENDA DI SAN CRISTOFORO Nino Algeri
Nino
Algeri
In questi giorni sono ritornato
ad Ucria per sfuggire alla calura estiva che invade le città e rivedere posti e persone cui sono molto
affezionato.
Giunto davanti alla porta di casa dei miei genitori, ho rivisto con
dolore la cadente casa di mia nonna materna e i ricordi si sono accavallati
nella mia testa facendomi tornare ragazzo.
In una giornata d’inverno, con mia nonna seduti accanto al
braciere, io la sollecito a raccontarmi qualche favola e dopo essersi fatta
pregare un poco, lei incomincia: <C’era
una volta>.
Io subito la interrompo
dicendole di non incominciare con la solita tiritera del re e della serva,
allora incomincia a raccontare veramente.
<Si dice che nella
giornata di Tutti i Santi, le persone devono
ritirarsi a casa, prima che faccia buio, per non incontrare le anime dei morti
che nella notte antecedente alla giornata dedicata alla Commemorazione dei
Defunti, ritornano sulla terra per visitare i loro parenti e portare i dolci ai
bambini che sono stati buoni e qualche pezzo di carbone ai bambini che hanno
fatto i monelli.
In una di queste giornate è successo che un
contadino di nome Cristoforo si è attardato a rientrare perché, avendo caricato
molto la mula, questa stentava a camminare e arrivati in prossimità del paese
di Ucria, nella salita di
Santu Lia, la mula si stese a
terra e non ci fu potenza di farla rialzare. Lui ha provato e riprovato a
convincere l’animale ad alzarsi da terre, sia con le buone sia con le frustate,
ma non ci riuscì in nessun modo.
Disperato
si guardava in giro per vedere se ci fosse qualcuno disposto ad aiutarlo, nel
mentre si faceva buio. Guardando attentamente, con la mano davanti agli occhi,
come a volerli riparare dal sole, vide che dal paese scendeva una processione
di monaci, tutti vestiti di bianco, gesticolando attirò la loro attenzione e
chiese aiuto.
I monaci immediatamente si precipitarono ad
aiutarlo, ma per quanti sforzi facessero non riuscivano a far alzare la mula.
Il contadino mostrò il suo disappunto gridando contro di loro.
< Ma, non avete forza, che siete tutti
morti?> e loro risposero in coro:< Cristoforo Santo, lo puoi dire
forte>.
Non so a voi, ma a me le favole
che raccontava mia nonna piacevano tanto e ancora oggi mi tornano alla mente.
A LIGGENNA
’I S. CRISTOFURU
U jornu i tutti i Santi,
prestu tutti quanti,
a casa n’avimu a ritirari
ccussi, i morti nu ’ncuntrari.
Si dici chi ddu jornu,
senza nuddu scornu,
solunu a casa tornari
e i parenti visitari.
Carcunu, pi ne contrariari,
cci pripara a tavvula e ‘u manciari
iddi, e carusi fanu rigali e rigaluni,
ma carchi vota portunu carvuni.
Ora succidiu chi ’nta sta jurnata,
un certu
Cristofuru, c’’a jimenta carricata,
’nto scuru e lustru, da campagna vinia,
ma ’a jimenta cu ddu carricu nun ci ‘a facia.
Quannu arrivau du paisi ’nta cchianata,
si misi ’nterra tutta stinnicchiata.
Iddu nun cia fici a farila arzari
e si guardava attornu aiutu pi truvari.
Tuttu cuntentu visti in luntananza
na prucissione chi versu iddu avanza,
erunu tutti di biancu vistuti
e d’’u Crucifissu erunu priciduti.
Diversi di chisti s’avvicinanu,
di mettiri additta ’a jimenta circanu;
cchiu voti pruvanu e ripruvanu,
ma ad arzarila, nun cci arrivanu.
Cristofuru a stu puntu s’annirbuliau,
rivulgennusi a iddi cci gridau:
<ma chi siti tutti quanti morti?>
Iddi in coru:<Crisofuru Santu, u poi diri
forti.>
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