IL NOSTRO LINGUAGGIO- LE NOSTRE PAROLE
Luigi Pinci
Alla fine degli anni Cinquanta, a scuola, a partire
dalle elementari, nelle lezioni di italiano, ci insegnavano a costruire
un periodo. Le nozioni via via si affinavano e noi, studenti delle medie,
dovevamo mettere in pratica la costruzione di quel periodo affinché esso
potesse essere letto e compreso da chiunque.
Il libro di Grammatica italiana era uno dei primi
strumenti che l’alunno, lo studente, doveva tenere a portata di mano. Allora
era facile averlo a portata di mano; non tutti avevano una cartella, pur se di
cartone pressato, e men che meno una libreria dove, una volta acquistato, si
poteva imboscare o far figurare come un arredo passivo.
Col passare degli anni, la voglia di “rivoluzione”, di
anticonformismo cominciò a “lavorare” perché alcuni programmi scolastici
fossero scalzati, considerandoli obsoleti.
Pian piano non si sapeva più a cosa si alludesse
quando si parlava di “costruzione di un periodo”. Ognuno poteva scrivere come
meglio credeva fosse più giusto, anche se tanti non capivano
cosa volessero esprimere verbalmente. I più eruditi nel parlare non
formulavano per intero neanche le frasi e. quasi a sfidare chi
ascoltava un loro silenzio mugugnato, voltavano le
spalle pensando a qualche altra cosa.
Stavano scomparendo le frasi, i concetti, le parole.
Chi era stato bravo a scuola ed aveva appreso le
“regole”, pur se aveva acquisito capacità di sintesi, rimaneva quasi
allibito nel sentire come veniva formulato un discorso: parole “nuove”, senza
senso, smozzicate, fuori da ogni contesto o meglio che potevano entrare (s)comodamente
in ogni contesto.
Cominciava un’epoca in cui si percepiva una certa
difficoltà nella comunicazione.
Le classi sociali più disagiate intanto cercavano di
colmare il gap che le aveva diviso da quelle mano abbienti (anche
culturalmente). A loro, per farsi capire, non sembrava più giusto, di moda,
continuare a parlare il dialetto. Credevano in un loro riscatto
socio-economico-culturale parlando in italiano anche con chi non era
più colto o con chi colto era e tranquillamente continuava a
mantenere il dialetto come un’identità da non abbandonare, capace
di farlo esprimere in maniera “completa” e comprensibile oltre ogni
aspettativa. I più “moderni” ed acculturati, però, loro malgrado, non
riuscivano più a sintetizzare in italiano ciò che era l’equivalente di una
espressione dialettale concentrata, spesso, in una sola parola e capace di
esprimere, molte volte, un intero concetto.
L’Italia era stata fatta, gli italiani andavano pian
piano facendosi, la lingua italiana andava perdendosi, i dialetti andavano
esiliati.
Strada facendo si perdevano pezzi di una grammatica
non studiata, di un vocabolario ricco di parole italianizzate ma
incomprensibili.
Col passare degli anni, è inevitabile che tornino alla
mente alcune parole “antiche” che usavano i nostri nonni.
Andando alla Putia o Sassamenteria (oggi
salumeria) si comprava un’unza. un quattaruni, di questo o
quel prodotto alimentare. Quando nella case mancavano le vasche da bagno e le
docce, le nostre mamme, quando tornavamo dal cortile (vero luogo di socializzazione
per i bambini di quegli anni ormai lontani, sembra, anni luce) ci facevano il “mezzo
bagno”, mentre stavamo ritti e indossando soltanto la mutandina,
dentro le “bagnarole”. Gli anziani e i bambini si sedevano ’nto
Bisolu; si sentiva il rumore degli zoccoli
dei cavalli o dei buoi da tiro che percorrevano le strade di
basolato, si giocava con le nocciole “’a fussitta”;
“’ntescaluni” si giocava “a ciuscia” con le cartelle dei giocatori di
calcio e delle attrici (a me piaceva la Lollobrigida e quando
nella mazzetta messa “in palio” c’era la sua figurina, cercavo di soffiare bene
e forte per vincere), si giocava “a monti” cercando di non far
cadere dal ciglio del marciapiedi un tappo di bottiglia di gassosa o di birra;
c’era ’u paloggiu” e chi perdeva in questo gioco si assoggettava
alle “papagne” che, quando il paloggio era “muddisi” lo
spaccavano letteralmente in due. A questo punto il malcapitato giocatore o
andava via o doveva comprarne frettolosamente un altro (Il costo? Cinque o
dieci lire della fine degli anni Cinquanta; a seconda del rumore che
questo giocattolo produceva, si diceva “vadda ch’è sita!” e c’erano
due opzioni per lanciarlo e imprimergli la forza per farlo girare:
supramano (lancio dall’alto verso il basso) o suttamanu
(quando la tecnica era quella di lanciarlo parallelamente alla superficie
dove doveva girare. Tecniche di alta precisione!!!).
Per carnevale c’era “’u cannulu” attraverso
il quale si sparavano “’i npennuli” tra i capelli delle
ragazzine (oggi lo giudicherei un tipo di corteggiamento pre-adolescenziale:
guarda caso carnevale cadeva quasi sempre in febbraio, il mese degli
Innamorati.)
Quante altre parole affiorano come germogli dalle
radici di un vecchio albero!
Si diceva: <<Ora t’addubbuiò>>. Ciò
preludeva ad una manciata di botte per aver commesso qualche marachella; se
invece si diceva <<t’addubbu un paninu>> significava che la
mamma cercava di prepararci un panino con quel che si poteva trovare in
casa (ed allora non c’era proprio tanto!).
Si adoperava un’altra parola: <<Dulliare>>
che vuol dire qualcosa di più o qualcosa di meno di “Tardare”. Per dire che si
perdeva tempo qualcuno veniva apostrofato con la frase: Chi fai?
Tafissii?
Mi chiedo come potrebbe rendere in italiano e
sinteticamente il senso che si dava ad altre parole:
L’acqua spisiddia
L’acqua spaccau“ ’u bugghiu”.
Negli anni Sessanta la produzione cinematografica fece
conoscere a gran parte degli italiani il nostro dialetto e, qualcuno (di cui mi
sfugge il nome) scrisse <<La lingua dialettale parlata nei film è
più un italiano di Sicilia che il siciliano>>. Avvenne così che
molti non venivano a conoscenza del nostro dialetto, del significato della
parole, ma potevano “innamorarsi” di quella “parlata”. Proprio recentemente,
trovandomi all’estero, un occasionale compagno di viaggio, mi ha chiesto di
parlare in dialetto perché era catalizzato del linguaggio e della cadenza che
Montalbano dà alle sue espressioni negli sceneggiati di Camilleri.
Il cinema ha fatto, fa la sua parte, ma, sinceramente,
ci sono termini di cui neanche io conosco il significato.
Tempo fa comprai una ristampa del dizionario
siciliano-italiano (di Vincenzo Nicotra, la cui prima edizione risale al 1883);
alcune parole del primo Novecento naturalmente non si trovano e non è che la
sua consultazione abbia portato, durante le mie ricerche, a risultati
significativi. Tant’è!
E poi, quante parole cambiano da un paesello
all’altro, da una borgata all’altra della nostra stessa Provincia.
A Messina, riferendoci ai bambini diciamo “i
picciriddi, mentre a Patti, dicono “i carusitti”
A Messina, si dialettizza “dove andate?” con “Unni
annati?”, a Patti con “Unni iti” (radici latine) che si trovano
anche quando a Patti dicono “c’esti” o chi faci”
corrispondenti al messinese “c’è” o “chi fai”.
Tralascio le tante parole che affondano le radici
nelle lingue dei vari popoli che hanno conquistato e dominato la nostra terra.
Veniamo ai nostri giorni.
La “costruzione di un periodo”, argomento
iniziale di questa chiacchierata, è qualcosa di cui, oggi, non mi sembra si
abbia neanche la più pallida idea. I nuovi mezzi tecnologici che
hanno indotto ad usare le dita delle nostre mani non più a tenere una penna ma
a pigiare continuamente i tasti di un computer o di un telefonino, hanno
drasticamente ridotto all’osso, se non per capacità di sintesi logica ma per
necessità, le parole, l’espressività delle parole, espressività che magari sono
attribuite a dei segni programmati, omologati, standardizzati, globalizzati
(tanto per essere in linea con tutto il resto che già da tempo
conosce questa globalizzazione). Sono nati gli Emoticon che sotto
sotto ti fanno intendere che essi sono i veri messaggeri delle
Emozioni
Le frasi non esistono più e per chi era abituato a
costruirle, risulta difficile entrare in un’ottica rivoluzionata che non ha più
regole e che è frutto di invenzioni estemporanee soggettive o soggettivizzate.
Si può trovare sempre qualcuno che ti fa vedere ciò
che tu non vedi, ti fa giustificare ciò che tu non giustifichi.
Nell’osservare come le parole parcellizzate ci hanno
fatto perdere il gusto, anche quello estetico, della nostra lingua, mi fu detto
che questo “tipo” di scrittura ha degli esempi “storici” e mi invitò a
riflettere sulle iscrizioni poste su certe antiche “pietre”. Mi fece notare che
alcune di queste iscrizioni era necessario interpretarle proprio perché non
erano formulate con parole intere perché lo scalpellino dell’epoca non aveva
potuto far “entrare” in uno spazio risicato di quella pietra le parole per
esteso. Rimasi disarmato e non seppi controbattere. Corsi
e ricorsi storici?
Rimane solo una consolazione, forse amara: Vuoi negare
l’espressività ed il senso intrinseco di quando diciamo nel nostro vernacolo.
<<Ma vaia, leviti di ddocu!>> Ognuno gli può dare tanti
significati, certamente molti di più di quanto non possa darne una di quelle
faccine che ti ritraggono triste, sorridente, serio, con aria sfottente o
addirittura in lacrime da “appiccicare” ad un SMS che
potrebbe essere l’acronimo di Senza Molti Significati.
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