Angela Niosi
La ricordo come un posto
speciale.
Vi si accedeva scalando due
gradini, percorrevi una sorta di piccola anticamera, dove era possibile
ripararsi in caso di pioggia o quando volevi momentaneamente nasconderti,
lanciavi uno sguardo veloce sui vetri a specchio laterali e spingevi una porta
opacizzata, sulla quale ti inquietava uno stemma con due serpenti attorcigliati
attorno ad un bastone alato.
Avevo l’impressione di entrare
in un tempio.
La prima cosa che mi colpiva
erano i pavimenti, incastri geometrici che, a guardarli fisso, davano le
vertigini e ti pareva di caderci dentro come nel racconto di Alice nel paese
delle meraviglie.
Io ci speravo.
Lo sguardo impattava su un
bancone antico, intagliato con abilità, sulla cui parte inferiore una
vetrinetta convogliava il tuo sguardo.
Lì erano in mostra prodotti
cosmetici che io ammiravo con occhi sognanti immaginando il giorno in cui
anch’io ne avrei fatto uso.
Alle pareti, austere vetrine ti
guardavano dall’alto in basso; all’interno una varietà di allegre scatole
colorate incoraggiavano la guarigione.
Alle spalle del bancone, un’apertura lasciava
intuire il retrobottega. Era quasi sempre al buio ed io, nell’attesa del mio
turno, immaginavo scenari di grande magia.
Sulla sinistra si affacciava un altro locale
dove, oltre ad una scrivania, ricordo un’esibizione di articoli per neonati.
Entrando, avvertivo chiaramente un odore opaco,
chimico, sfuggito chissà come dai contenitori e un leggero sentore di umidità,
proveniente dal retrobottega, che mi accecava il naso.
Non era prevista la fila e ai bambini toccava
sempre l’ultimo posto.
Ogni tanto, qualcuno adduceva una scusa per
poter anticipare un cliente, era difficile dire di no, perché ci si conosceva,
ma mi pare di aver visto volti contrariati e udito mormorii di disappunto,
magari rivolgendosi al vicino di fila: “Tutti avimu chi fari”.
Poiché avevo tempo, osservavo con attenzione
quel che succedeva intorno a me.
La farmacista era una donna fine e delicata, una
carnagione soffice come una nuvola con piccoli spruzzi di nei.
Portava occhiali che le ingrandivano lo sguardo
e un camice sbottonato alla fine che si apriva mostrando l’ultimo pezzo di gonna.
I capelli tendevano al rossiccio e un ciuffo
prevaricatore scappava su un lato della fronte.
Aveva labbra fini, colorate di rossetto e mani
poco affusolate.
Era calma nei movimenti e dava l’impressione
che, per lei, il tempo fosse un’opportunità e non un nemico.
Parlava senza fretta e, quando rideva, le si
aprivano due fossette che si spianavano nel momento in cui ridiventava seria.
Andava avanti e indietro,
apriva e chiudeva vetrine, staccava bollini che poi attaccava sulle ricette,
intratteneva con qualche chiacchiera ed era gentile con i bambini.
Sembrava non perdere mai la
pazienza e di pazienza credo ce ne volesse molta, nel suo lavoro.
Era abile interprete
estemporanea di nomi storpiati dei farmaci, pronunciati da vecchietti senza
scuola. Spiegava infinite volte dosaggio e controindicazioni a facce perplesse
che muovevano il capo come a sembrare di aver capito e poi chiedevano: “Si’, si’ ma quantu n’aja a pigghiari di
sti pinnuli?”
Molti pretendevano che il
farmaco fosse prontamente disponibile e, se gli si diceva che c’era da
aspettare, alzavano gli occhi al cielo assumendo un’espressione volutamente
compassionevole, cercando conforto anche nello sguardo degli altri paesani che
facevano finta di commuoversi.
La farmacista era la mamma di
una mia compagna di scuola e amica di lunghi pomeriggi trascorsi insieme, nella
sua casa antica e misteriosa dove avevo la possibilità di far merenda con
panino fresco di forno, accompagnato dal salame.
A me, però, il salame non
piaceva e, di nascosto, lo lanciavo al cane che viveva con loro da molti anni.
E il cane lo afferrava al volo,
restituendomi, mi pareva, uno sguardo riconoscente.
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