Il Natale nella tradizione di
Palermo … e non solo
- Salvatore Lo
Presti -
Voglio
cominciare questo mio articolo, rivolgendo i miei più sinceri e affettuosi auguri di buone feste a tutti, e con l’auspicio
che le feste che si prospettano dinanzi a noi, possano portare serenità e
felicità, perché, in un periodo storico dove si stanno mettendo in discussione
le tradizioni, le nostre tradizioni,
( le quali, vogliamo o non vogliamo ammetterlo, ci hanno permesso di arrivare
dove oggi siamo ), e dove spesso la paura prende il sopravvento sulla ragione ( unico motivo per cui l’essere
umano è superiore alle altre creature presenti sul nostro pianeta ), si possa
continuare invece a tramandare le tradizioni, che tanto ci hanno insegnato, e
ancora ci insegnano. Tradizioni che devono servire non soltanto da pretesto per
cercare di pretendere dei diritti, ma che devono soprattutto servire per farci
capire da dove veniamo. Perché si può guardare con fiducia al futuro solo ed
esclusivamente se si ha la consapevolezza del nostro passato.
In
questo articolo, parlerò del Natale, di come esso veniva vissuto a Palermo nel
XIX secolo, riportando quello che sul Natale racconta un libro da me letto
recentemente, ovvero “La
Conca D ’Oro, Guida Pratica di Palermo” per
Enrico Onufrio, libro edito a Milano dai Fratelli Treves, nel lontano 1882.
Il
presente libro, è diviso in 4 parti, la prima parte riguardante la città, la
seconda parte sulla vita dei cittadini palermitani e sulle loro abitudini, la
terza parte riguarda la spiegazione di alcuni dei monumenti di Palermo, e
l’ultima parte, la quarta, sui dintorni.
Quello
che io riporto è inserito nell’undicesimo capitolo della seconda parte, che lo scrittore così comincia:
“Tutte le feste e le festicciole popolari, tranne il
carnevale, hanno un carattere religioso; cioè, intendiamoci bene, la religione
è un pretesto, un santo pretesto che serve a salvar le apparenze; ma lo scopo
vero, ultimo, reale, è quello di far baldoria, e di gozzovigliare. Ne volete un
esempio? Non c’è festa religiosa in Palermo, che non abbia il suo manicaretto,
il suo dolciume occasionale. Lo sentirete
adesso che, a cominciar dalla Pasqua, vi andrò discorrendo brevemente
delle varie solennità… chiamiamole pure religiose.”
Questa
introduzione da parte dell’autore basterebbe, o quantomeno dovrebbe bastare, a
far capire a tutti noi, come la religione, in ogni tempo, non è stata solamente
un elemento che ha condizionato la vita di noi esseri umani, ma al tempo stesso,
è stata utilizzata per poter avere attimi di svago e di libertà dalla normale
routine quotidiana, e che quindi chi oggi cita la religione come unica causa
per lo stato di arretratezza della nostra terra ( dove per terra intendo non
solo la nostra Regione, ma l’intera Nazione ), dovrebbe riflettere, fermarsi
davanti un tavolo, aprire un qualsiasi libro, indipendentemente tratti di Storia dell’Arte, di Storia, o ancora anche
un semplice romanzo, e dopo averlo sfogliato, domandarsi cosa sarebbe oggi
l’Italia, senza la religione.
Passo
adesso a riportare quello che l’autore scrive sul Natale, e su come questo era
vissuto alla sua epoca, dai suoi compaesani palermitani:
“E adesso entriamo un pochino
nell’ambiente allegro del santo Natale; facciamo un po’ risplendere la gaia
fiamma del ceppo.
Eppure, ve lo dico fin da principio, di
ceppo e di fiamme in Palermo non bisogna parlarne, per la ragione semplicissima
che ci bastano le fiamme del sole a riscaldarci; sicchè il camino, nelle nostre
abitazioni, è raro come un cameo greco; lo spazzacamino poi è un animale che
non appartiene alla nostra fauna.
Torniamo dunque al Natale, ovvero alla
gastronomia natalizia, perché tutti i salmi finiscon in gloria e non c’è festa
senza farina. Ebbene: il panettone a Milano non assume in quei giorni le
proporzioni d’un monumento? e il capitone a Napoli? e il pan pepato altrove?
Perché dunque non debbo dirvi due parole della nostra mustazzòla? Statemi quindi a sentire, e compatitemi se son
costretto a fare per un istante il sapiente.
Voi lo sapete: ai tempi che il mondo si
chiamava romano, c’erano le feste di Saturno, e tali feste si celebravano il 25
dicembre, che rappresentava allora il Natale dell’anno, vale a dire subito dopo
il solstizio d’inverno.
Ebbene, tra le vivande rituali di quella
festa, ci erano i mustacca, che sono
i mostaccioli o mustazzoli d’adesso
fatti di farina e miele. Non vi commovete al sentire tutte queste belle cose?
Per lo meno noi palermitani possiamo affermare che in fatto di mostaccioli non
abbiamo tralignato dai nostri padri; eppoi queste offerte di farina e miele non
vi ricordano gli antichi e semplici riti del culto pagano, e salendo su su fino
ai nostri primi atavi della valle
dell’Oxus, non vi ricordano il sacerdote aryano, là, nelle fertili regioni
dall’Eptasiuda, che, su la vetta d’un colle, dinanzi a un rozzo altare, offriva
il biondo miele e la candida farina al dio della luce e al dio delle tempeste?
Auf! la sapienza è sfumata; tutto quello
che sapevo l’ho detto.
Passiamo oltre. Di che cosa debbo
parlarvi?
Del natale, vale a dire di Gesù bambino, del bue e dell’asinello;
ed ecco un presepe già bello e formato. E i presepi da noi, in tali giorni di
feste, sono assai in voga; i bambini specialmente ne vanno matti. Con dei pezzi
di sughero formano una grotta, e poi comperano dei pastorelli di creta, che qui
si vendono a due centesimi l’uno. In mezz’ora è composto tutto lo scenario: in
fondo la grotta con dentro Gesù coi piedi e le mani per aria, accanto a lui, a
destra e a sinistra, il bue e il somaro che lo fiutano avidamente; un po’ più
da canto la madonna per lo più ginocchioni, e San Giuseppe con un nodoso
bastone in mano. Verso la grotta s’incamminano dei pastori, recanti con sé
delle offerte, come a dire agnelli, ricotte, formaggi; qua e là poi, per la
scena, si vedono una mandra con rispettiva caldaia in funzione, una cascina, un
tugurio, degli alberi, una collina, un prato, e così di seguito tutto ciò che
di bello presenta la campagna. Questo è il presepe che metton su i bambini, e
se ne stanno per delle ore contemplandolo a bocca aperta.
Vi piace tutto ciò? è simpatico? è
grazioso? è gentile? è Arcadia insomma o non è Arcadia? Aspettate, che di
cotesta Arcadia debbo ancora disegnare
l’ultima scena.
State a sentire: una delle più inveterate
abitudini delle feste natalizie in Palermo è il giuoco d’azzardo; e non c’è riunione elegante, non v’è circolo,
dove per nove o quindici giorni di seguito non si studi la scienza positiva
della bassetta, del lanzichenecco e del macao. Nelle case della piccola
borghesia si giuoca per soldi e magari per centesimi, ma nei circoli e nelle
case signorili le centinaia e le migliaia si dileguano come in acqua la spuma.
È per questo che, in quei giorni, uscendo la mattina di buon’ora a respirare un
po’ d’aria, boi incontrate delle facce livide di fatica e di rabbia, delle
persone prostrate dalla stanchezza e dal sonno, e che, rimaste in debito di
grosse somme, van cercando il modo di riparare al danno. È in tale occasione
che si compiono delle stupende operazioni al cento e magari al duecento per
cento, e chi si frega le mani è quel brutto rettile dagli occhi di falco che si
chiama usuraio.”
Nonostante
il libro parli e racconti di una Palermo che oggi, per moltissimi aspetti non
c’è più, molte delle cose che sono raccontate in questo libro in occasione
della festa del Natale, personalmente io le ricordo. Non pensiate adesso che io
sia pazzo, con la mia ultima affermazione, voglio solo dire, che quando io ero
bambino, non molti anni fa insomma visti i miei 26 anni, nel mio quartiere, con
mio fratello, Luca, Claudio e tutti gli altri bambini presenti nella mia zona,
ci siamo ritrovati spesso e volentieri ad allestire il presepe, e, come noi
facevano gli altri bambini in ogni altro quartiere del paese. Ancora oggi,
nonostante nel nostro paese i bambini comincino a essere sempre meno, ogni anno
i presepi non smettono di essere presenti.
Da
noi, i mustazzoli non sono presenti, ma comunque anche da noi è presente una
pietanza che ogni anno viene preparata nel periodo natalizio, ovvero le “Crispedde”, sapientemente descritto da
Marco Ferro in un articolo lo scorso anno nel medesimo giornalino.
Un
altro aspetto che ahimè è facile riscontrare anche nel nostro comune è il gioco
d’azzardo, dove in molti ogni anno, nel periodo natalizio si ritrovano per
giocare, e se è pur vero che ognuno con i propri soldi può fare quello che
vuole, è vero anche che quando si gioca mettendo in palio denaro c’è chi vince,
solitamente sono pochi, se non uno solo, e c’è chi perde, la maggioranza di
quelli che giocano, e talvolta chi perde mette in difficoltà intere famiglie.
Per questo colgo anche l’occasione per invitare tutti voi a non giocare, o, a
giocare in maniera responsabile, perché il termine gioco è qualcosa che
dovrebbe essere visto come positivo e non dovrebbe in nessun caso essere visto
come un modo per aumentare il grano che ognuno, chi più e chi meno, ci
ritroviamo in tasca. Insomma, giocare si, ma per divertirsi e per stare tutti
assieme in armonia.
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