martedì 15 dicembre 2015

NOTERELLE UCRIESI, I. “Comu ‘e Giallonghi”. Nino Pinzone (vulgo Palagonia).

NOTERELLE UCRIESI, I.
“Comu ‘e Giallonghi”.
Nino Pinzone (vulgo Palagonia).
Messina 8-12-2015

Avevo tempo fa promesso alla cara Maria Scalisi di mandare qualcosa per “La cruna dell’ago”, ma i troppi impicci mi avevano finora impedito di mantener fede all’impegno. Lo faccio oggi, anche per testimoniare il mio apprezzamento e il mio plauso a quanti collaborano per portare avanti l’interessante iniziativa del giornalino a suo tempo fondato da Ranieri Nicolai.
Quante volte capita, nel formulare voti augurali ad una coppia in procinto di convolare a nozze, di stentare a trovare le giuste parole senza necessariamente utilizzare terminologia e frasi stereotipe, per finire poi con l’abusare delle solite frasi fatte, mille volte ripetute di occasione in occasione.
E’ un problema questo che non ebbero per un certo tempo (o che perlomeno poterono risolvere facilmente)i nostri antenati ucriesi,a seguito di un episodio abbastanza curioso verificatosi nel paese qualche secolo fa, riportato in un manoscritto delsacerdote Vincenzo Domenico Martelli, autore, all’inizio dell’800, di quella “Breve descrizione della penuria dell’anno 1793”,  su cui mio padre, Ciccino Pinzone, tenne una comunicazione in un interessante convegno sulla storia dei Nebrodi tenutosi a Ficarra una trentina d’anni fa[1]. Dico subito che non mi è riuscito di rintracciare la trascrizione del manoscritto del Martelli pazientemente fatta allora da mio padre e che purtroppo molti particolari sono ormai sfocati nella mia memoria, resa sempre più flebile dal passare degli anni. Nel chiedere scusa per eventuali inesattezze, invito chi avesse notizie più sicure a farmele avere.
L’episodio si colloca nell’Ucria del XVIII secolo. Due coniugi, appartenenti a famiglia di rango elevato all’interno della comunità locale, di cui non ricordo il nome, ma che per comodità chiamerò col soprannome di “Giallonghi”, erano sempre vissuti in amore e concordia, rispettandosi vicendevolmente e allevando nel rispetto di Dio e degli uomini un discreto numero di figli. Per una circostanza non certo usuale i due sposi conclusero il loro ciclo vitale quasi contemporaneamente, nella stessa giornata. Come era naturale, i figli ne furono oltremodo addolorati, ma trovarono un forte motivo di consolazione nella contemporaneità della dipartita, nella straordinarietà della quale vollero probabilmente vedere una sorta di suggello divino all’amore che in vita aveva unito i due perdutigenitori.
Fu per questo e forse in obbedienza aun approccio con il tema della morte e ausi che a noi possono sembrare strani, ma lo erano di meno in quei tempi lontani, che misero su una specie di macabra rappresentazione. Le salme dei due morti, agghindate di tutto punto come se fossero ancora in vita, vennero sistemate nella piazzetta della Matrice, sedute su due poltrone l’una accanto all’altra, nell’atteggiamento di chi sta colloquiando. Assieme a parenti e amici, tutta la popolazione locale, udita la cosa espinta dalla curiosità suscitata dall’inusuale circostanza, fece a gara nell’andare a sfilare compostamente davanti alle due salme per porgere l’ultimo saluto ed esternare le dovute condoglianze ai familiari. Come i figli, tutti si convinsero che la coppia aveva avuto il privilegio di quella particolare fine per il troppo bene che l’aveva unita in vita. L’impressione, che fu naturalmente fortissima, fece nascere negli ucriesi l’usanza di augurare da allora in poi a tutti gli sposi novelli una vita lunga e piena di amore “comu ‘e Giallonghi”.
Col tempo e con l’allontanarsi dagli anni in cui l’episodio si era verificato, l’usanza è andata scemando per svanire poi del tutto. Mi è sembrato interessante richiamarla alla mente degli ucriesi di oggi, anche per gettare un po’ di luce su un aspetto della vita dei nostri antenati, in cui fede religiosa, amor filiale e ingenuità si mescolavano intensamente, in un modo che può fare sorridere noi scaltriti figli del XXI secolo, ma che può anche suggerire, in ultima analisi, non trascurabili alternative alla nostra fin troppo materialistica visione della vita.





[1] Cfr. F. Pinzone, Della penuria dell’anno 1793, in G. Celona (a cura di), Storia dei Nebrodi. Atti del Convegno di Studi sulla Storia dei Nebrodi (Ficarra 7-8-9 agosto 1986), Patti 1987, pp.125-130.

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