martedì 15 marzo 2016

IL MONUMENTO * Giuseppe Salpietro *

IL MONUMENTO
* Giuseppe Salpietro *
            Ritrovandomi in un paese della costa calabra ho notato, in una delle sue piazze, un monumento dedicato alle donne del luogo, alle Bagnarote, le quali, avvedutissime ed infaticabili  hanno rappresentato e rappresentano la parte  più viva della popolazione locale.
            Si celebrava con quel monumento, inaugurato sul finire del secolo scorso, la Bagnarota perché, secondo l’unanime riconoscimento, essa rappresentava “a simenza d’a Calabria, forti, sana e maistra di trovagghiu”.
            Ecco, pensai all’istante, se avessi il potere di erigere un monumento alla memoria in un luogo qualunque di Ucria, lo dedicherei alle sue donne, e fimmini che nei secoli hanno umilmente e tra scarsi agi: lavato, ripizzato, carriato e donato la vita. A tutte le donne che nel corso dei secoli si sono rotte la schiena a raccogliere le nocciole pì dù liri, in ogn’una delle varie contrade, prevalentemente di proprietà delle famiglie benestanti di un tempo (i nobili).
            Quanta fatica, quante ore trascorse con la schiena ricurva verso la terra per tutta la vita; impegnate a raccogliere leste il prezioso frutto con una manualità da prestigiatrici. Capaci di rastrellare il terreno fino alla sua nudità dal fogliame utilizzando come unico strumento le loro abili dita costantemente annerite nei polpastrelli, come se avessero maneggiato catrame.     Repentine nello scavare i gaddi con un gesto fulmineo che imprimeva una rotazione al frutto ancora ben saldo al suo involucro naturale, fino a farlo uscire dalla sua naturale culla.
            Cinquanta chili e forse più di prodotto a giornata era il risultato atteso dalla raccolta di ogni singola fimmina, che svelta non voleva certo sfigurare con il patruni.
            Un tempo sempre abbigliate con gonne lunghe, anche per occultare alla smirciata altrui le rotondità del loro essere donne, solo con la modernità si sono adattate ai più comodi e ampi pantaloni sempre larghi e morbidi. Ma la particolarità, l’unicità del loro abbigliamento era un’altra, a fimmina non poteva non avere u faddali. Un ampio grembiule rivoltato e legato alla schiena mediante due lunghi lacci annodati tra loro, come fosse un marsupio.
            Il maschio no, quando raccoglieva, e lo faceva a malincuore preferendo altre attività, utilizzava u panaru.
            Tra una sduvacata nel sacco e l’altra, che venivano effettuate quando il carico esercitava un peso non più sopportabile sulla schiena, il tempo doveva pur passare, ed allora, cunti e curtigghi si alternavano ai canti. Si, i canti, abituate com’erano a cantare nella Chiesa Madre di San Pietro Apostolo, continuavano anche durante la fatica la loro preghiera, la loro implorazione.          In modo gioioso il Tantum Ergo Sacramentum, che risuonava come tantu meggu (o mugghiu) sacrameentu, composto da San Tommaso d’Aquino per i riti del Corpus Domini, o il Salve Regina intonato magistralmente da Nunziata a Signuruzza, si alternavano ad una infinita scaletta di canti liturgici, che esaltando le voci in un tutt’uno allontanavano la fatica e la noia dalle operose donne.
            Tutti ricordano, ancora oggi, la soddisfazione quasi ingenua determinata in loro dalla apparentemente irrilevante individuazione di un cavadduzzu tra le tante nocciole. U cavadduzzo: deformità del frutto causata dall’unione naturale di due nocciole probabilmente troppo strette nella loro sede naturale o perché prive di intercapedine che ne avrebbe consentito l’autonoma crescita.
            L’individuazione di un cavadduzzu equivaleva per soddisfazione alla vincita di una piccola lotteria; una probabilità tra decine di migliaia di nocciole singole, ed era scontato, dopo la scoperta, che venissero infilate in tasca per portarle in dono, a sera, ai picciriddi che da questi gusci annodati in sequenza mediante filo di spagnoletta ne avrebbero ricavato una sorta di lunga treccia.

            Ecco a queste donne, alle tante donne di Ucria, proprio per queste cose apparentemente semplici, erigerei un monumento n’ta la chiazza, perché anche loro sono state: “Simenza da comunità eletta, che vive sutta u munti di Casteddu. Forti, umili ed ancora chiù maistri di virtù”.


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