* Giuseppe Salpietro *
Ritrovandomi in un paese della costa calabra ho notato, in
una delle sue piazze, un monumento dedicato alle donne del luogo, alle
Bagnarote, le quali, avvedutissime ed infaticabili hanno rappresentato e rappresentano la
parte più viva della popolazione locale.
Si celebrava con quel monumento, inaugurato sul finire del secolo scorso, la
Bagnarota perché, secondo l’unanime riconoscimento, essa rappresentava “a
simenza d’a Calabria, forti, sana e maistra di trovagghiu”.
Ecco, pensai all’istante, se avessi il potere di erigere un monumento alla
memoria in un luogo qualunque di Ucria, lo dedicherei alle sue donne, e fimmini che nei secoli hanno umilmente
e tra scarsi agi: lavato, ripizzato,
carriato e donato la vita. A tutte le donne che nel corso dei secoli si
sono rotte la schiena a raccogliere le nocciole pì dù liri, in ogn’una delle varie contrade, prevalentemente di
proprietà delle famiglie benestanti di un tempo (i nobili).
Quanta fatica, quante ore trascorse con la schiena ricurva
verso la terra per tutta la vita; impegnate a raccogliere leste il prezioso
frutto con una manualità da prestigiatrici. Capaci di rastrellare il terreno
fino alla sua nudità dal fogliame utilizzando come unico strumento le loro
abili dita costantemente annerite nei polpastrelli, come se avessero maneggiato
catrame. Repentine nello scavare i gaddi
con
un gesto fulmineo che imprimeva una rotazione al frutto ancora ben saldo al suo
involucro naturale, fino a farlo uscire dalla sua naturale culla.
Cinquanta chili e forse più di prodotto a giornata era il
risultato atteso dalla raccolta di ogni singola fimmina, che svelta non voleva certo sfigurare con il patruni.
Un tempo sempre abbigliate con gonne lunghe, anche per occultare alla smirciata altrui le rotondità del loro
essere donne, solo con la modernità si sono adattate ai più comodi e ampi
pantaloni sempre larghi e morbidi. Ma la particolarità, l’unicità del loro
abbigliamento era un’altra, a fimmina non
poteva non avere u faddali. Un ampio
grembiule rivoltato e legato alla schiena mediante due lunghi lacci annodati
tra loro, come fosse un marsupio.
Il maschio no, quando raccoglieva, e lo faceva a malincuore
preferendo altre attività, utilizzava u
panaru.
Tra una sduvacata
nel sacco e
l’altra, che venivano effettuate quando il carico esercitava un
peso non più sopportabile sulla schiena, il tempo doveva pur passare, ed
allora, cunti e curtigghi si alternavano ai canti. Si, i canti, abituate com’erano
a cantare nella Chiesa Madre di San Pietro Apostolo, continuavano anche durante
la fatica la loro preghiera, la loro implorazione. In modo gioioso il Tantum
Ergo Sacramentum, che risuonava come tantu meggu (o
mugghiu) sacrameentu, composto da San Tommaso d’Aquino per i riti del
Corpus Domini, o il Salve Regina intonato
magistralmente da Nunziata a Signuruzza,
si alternavano ad una infinita scaletta di canti liturgici, che esaltando le
voci in un tutt’uno allontanavano la fatica e la noia dalle operose donne.
Tutti ricordano, ancora oggi, la soddisfazione quasi
ingenua determinata in loro dalla apparentemente irrilevante individuazione di
un cavadduzzu tra le tante nocciole. U cavadduzzo: deformità del frutto
causata dall’unione naturale di due nocciole probabilmente troppo strette nella
loro sede naturale o perché prive di intercapedine che ne avrebbe consentito
l’autonoma crescita.
L’individuazione di un cavadduzzu equivaleva per soddisfazione alla vincita
di una piccola lotteria; una probabilità tra decine di migliaia di nocciole
singole, ed era scontato, dopo la scoperta, che venissero infilate in tasca per
portarle in dono, a sera, ai picciriddi che
da questi gusci annodati in sequenza mediante filo di spagnoletta ne avrebbero
ricavato una sorta di lunga treccia.
Ecco a queste donne, alle tante donne di Ucria,
proprio per queste cose apparentemente semplici, erigerei un monumento n’ta la chiazza, perché anche loro sono
state: “Simenza da comunità eletta, che vive sutta
u munti di Casteddu. Forti, umili ed ancora chiù maistri di virtù”.
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