MIO PADRE, CHE HA DATO DIECI ANNI DELLA SUA
VITA ALLA PATRIA, NON ERA FASCISTA
* Achille
Baratta *
Maria Scalisi, dimentica qualche volta
di essere ingegnere e con la sua grazia e il suo entusiasmo ci obbliga a
scavare nella nostra memoria e a approntare le nostre vicende di paese a quello
che succedeva altrove.
Mio padre
è stato prigioniero degli americani per un intero anno ad Orazzo, in Africa e mia madre con mia
sorella ha trascorso un intero inverno da sola a Pirrione.
Io
frequentavo il primo ginnasio a Catania, ospite di mia zia Elvira al Leonardo da Vinci,
dei fratelli cristiani.
Che cosa
strana,
questi ricordi assopiti ora vanno stranamente accostati a quelli di altri e ai
loro scritti in situazioni molto diverse e soprattutto in realtà di privilegio
come il quartiere Monte Mario a Roma.
Mio padre
non era fascista e considerava il Colosseo quadrato, una deformazione
dell’architettura voluta da Piacentini per evocare un’epoca e una fattezza che
fu dei nostri antichi romani per ordine del Dux.
Io, da
figlio della lupa,
non capivo bene che cosa significasse essere antifascista, ma capivo che tutto
questo era una remora per un ingegnere, come mio padre, libero professionista
che era parente dell’ing. Saro Scaglione Federale di Messina, dell’On. Guido
Natoli e dell’avvocato Pettini e del dott. Giuseppe Catalano, fascisti di
razza.
Nella
piccola Messina
non essere fascista significava essere messi al bando per gli incarichi
professionali, che non arrivarono mai dalla politica, ma solo per capacità
progettuale dalla società Pace, dalla Ferrobeton e da quasi tutti gli
imprenditori che dovevano calcolare le strutture dei loro edifici, dei loro
cinema, dei serbatoi e anche dei ponti. Ora, per Strade Blu di Mondadori,
Pierluigi Battista pubblica “Mio padre era fascista”; non è una affermazione ma
semplicemente una constatazione a posteriori. Che cosa significa essere fascista
per un antifascista e se proprio l’antifascista è il figlio che ha militato in
altre file, anche con aspetti estremi? Che succede? Succede quello che
Pierluigi Battista col suo saper scrivere ci comunica, ricordando la sua
gioventù vissuta a Monte Mario, il quartiere ricco di Roma:
“Menzogna dettata
dall’opportunismo, dalla convenienza, dal cinismo carrierista?
Oppure un incommensurabile senso di vergogna, il peso schiacciante di un
passato intollerabile, la sensazione che il fantasma di quel padre rinnegato,
cancellato, sparito quando lei aveva appena quindici anni; inghiottito
dall’oblio e fatto oggetto della riprovazione universale pur senza essersi
macchiato di particolari turpitudini, potesse alla fine distruggere lei e tutto
quello che lei aveva costruito contando solo su se stessa, nascondendo il
fascismo del padre ‘desaparecido’? Fatto
sta che Hélène Carrère d’Encausse, stella del firmamento culturale francese,
presenza di prestigio nell’establishment accademico di Parigi, avrebbe voluto
morire senza che quel segreto fosse infranto e perciò aveva supplicato suo
figlio scrittore di non farne parola finché lei fosse stata in vita. Ma
Emmanuel Carrère ha rotto la consegna del silenzio. Perché, nel racconto di sé
e del suo mondo, Carrère è uno scrittore che notoriamente non conosce il
pudore. Ma soprattutto perché parlare del «nonno fascista» anziché del «padre
fascista» non è un impegno sovrastato dallo stesso carico di angoscia,
costringe assai meno a fare i conti con se stessi. È molto più facile. Lui, il
nipote e non il figlio, non è mai sceso nelle catacombe di una memoria
socialmente indicibile”.
Memoria,
ma quale memoria? Gli
italiani non hanno memoria e non vogliono ricordare. Lui ci riferisce della sua
colpa di figlio:
“Ne diffidavo, non capivo perché mio padre si ostinasse a mantenere
rapporti tanto camerateschi con loro, con persone così diverse da lui. Capivo
il legame sentimentale con i suoi coetanei della Repubblica sociale, ma con i
miei, di coetanei?”.
Sono sicuro che il libro avrà successo,
perché è una realtà attuale e politicamente corretta. Io stesso sono corso in
libreria, e con successo, diventando il primo acquirente, il pacco che lo
conteneva era appena arrivato a Messina, da Mondadori; ma non lo condivido,
perché scrivere di un fascismo reatroattivo, non è possibile, probabilmente per
non essermi staccato mai dalle idee di mio padre, antifascista e perché la
politica deve essere un coacervo di idee e non può imporre né un’architettura
né un pensiero assolutistico.
Sudare
sangue non è corretto, è contro natura e non può servir una giustificazione
sommaria e non può essere contestualizzata:
“«I fanatici ci sono da tutte le parti» era la risposta che mi faceva infuriare di più. Lui invitava
a «contestualizzare», termine che mi risulta sempre orribile, anche quando
molto, troppo spesso, viene usato a sinistra per giustificare le atrocità
compiute in nome di (presunti) nobili ideali e poi, a furia di
giustificazionismi, si finisce per aspettare decenni prima che qualcuno si
accorga delle proprie colpe e si chiuda finalmente la stagione dell’omertà
autoindulgente. Ma pronunciato da mio padre, quel termine,
«contestualizzare» mi appariva se possibile ancora più falso e ipocrita”.
Mai
plasmare i figli,
loro andranno da un’altra parte. Mai plasmare un popolo, prima o poi ti
seppellirà. E piazza Loreto è ancora lì.
La storia
non è un invecchiare e noi con Pierluigi Battista ne prendiamo atto, con rammarico.
Non si può omettere l’indimenticabile e i morti, i bombardamenti, la disfatta.
L’affettuosità
e i rapporti umani non
possono mitigare la durezza e l’atrocità di una politica, apparentemente
vincente, quando tutto è diventato un viaggio all’incontrario, una sceneggiata
con fine tragico. Mio padre, tra prigionia e due richiami, ha dato alla Patria
dieci anni della sua vita e la nostra famiglia non ha mai comprato macchine
argentate, ma possedeva solo un asinello sardignolo che scalciava e mordeva,
importato dalla Somalia o dalla Tunisia, senza frontiere.
Dei
gerarchi solo un’ombra, un niente, tutti dissolti, o semplicemente con altra
camicia, quella nera rediviva solo per i funerali.
Pierluigi Battista riflette e scrive:
“Un pianto interminabile, ore e ore senza pace, sgomento, esterrefatto per quel
precipitar in un gorgo per me ignoto”.
Il principio
di equità è sacro, ecco
perché io scrivo anche di mio padre, senza dimenticare mia madre che era
fascista; ma la pubblicazione di un libro non può mai occupare la prima pagina
di un giornale storico: le violazioni di ineguaglianza sono sopraffazioni
culturali, da qualsiasi parte vengano, in ogni caso sono crude e amare.
Tutto si è
rotto?
O semplicemente riassemblato con i cocci appiccicati l’uno all’altro con la
saliva. Ma, soprattutto, mai in ginocchio chiederò venia, perché la venia deve
essere espressa tra pari e mettersi in ginocchio con Pierluigi non mi piace,
preferisco restare in piedi e con i piedi per terra. A ognuno il proprio credo,
senza colpe e senza rancori. Questa è la libertà di mio padre e pure la mia e
ne sono orgoglioso!
Se la barca
vacillasse, so
dove attaccarmi e anche i miei nipoti lo sanno. Chi fa il giornalista lo deve
sapere bene e il Colosseo non può mai trasformarsi in quadrato. Gli spigoli
pungono e le linee rette non possono mescolarsi con le curve. Un nuovo che non
è nuovo ma solo aggiustamento del vecchio, non mi piace.
E noi non
vogliamo confrontarci con il vecchio, perché il vecchio è caduco ed emana cattivi
odori, che fanno male alla salute.
Ognuno dà
quello che ha!
Per questo ringraziamo chi ha la forza e la volontà di renderlo pubblico
aprendo un dibattito, e questo è il mio apporto. In una testata che nel nostro
piccolo ci onora. Non ci interessano i cupi tramonti ma solo le aurore e le
albe.
I nuovi
orizzonti ci affascinano ogni giorno perché anche con le parole i cerchi non si
trasformino in quadrati o quadrilateri quelli sempre pericolosi, è questo
quello che l’autore vuol comunicare con la sua arguzia giornalistica di lungo
corso, non lo so? Ma un po’ d’aria di bruciato c’è speriamo che non
solidifichi. Di gerarchi non ne vogliamo più! Neanche a parole mozze.
Mia madre
Ida a Pirrione non
è stata sola, non avrebbe potuto sopravvivere, senza il calore umano della
famiglia di Calogero Pinzone a cui vanno oggi i miei ringraziamenti, senza
dimenticare donna Fortunata.
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