giovedì 14 aprile 2016

NOTERELLE UCRIESI 5 TERZE DIVAGAZIONI ONOMASTICHE: SOPRANNOMI E PROVENIENZA Nino Pinzone “Palagunia”

NOTERELLE UCRIESI 5
TERZE DIVAGAZIONI ONOMASTICHE: SOPRANNOMI E PROVENIENZA
Nino Pinzone “Palagunia”
  Chi ha avuto la ventura di leggere le mie precedenti divagazioni onomastiche, avrà sicuramente notato come il comune punto di partenza sia stato il soprannome di due dei quattro rami della mia famiglia di origine, ed esattamente Manueli, soprannome della mia nonna paterna, e Fruntinu, soprannome del mio nonno materno. Due dunque ne restano e di essi mi accingo a trattare in queste terze divagazioni. Si tratta della ‘nciuria della famiglia della mia nonna materna, Maria Rosaria Algeri, e di quella del mio nonno paterno, Nino Pinzone, rispettivamente Taschitta e Palagunia. Entrambe le ‘nciurie erano già esistenti nella prima metà dell’Ottocento, a giudicare dal fatto che compaiono in documenti della metà di tale secolo. Proprio uno di questi, che riporta l’interessante elenco dei componenti della guardia nazionale di Ucria, consente di spiegare il soprannome Taschitta alla stessa stregua di Fruntinu: era in realtà la sicilianizzazione del secondo cognome, col tempo non più percepito come tale e sopravvissuto comunque come soprannome. La forma originaria era Taschetta, cognome ancora oggi esistente in diverse aree della Sicilia.
  Più complicate sono invece le cose per il secondo soprannome, Palagunia. Per spiegarlo, dietro mia incuriosita richiesta, mio padre mi riferì un aneddoto, che qui riporto per onor di cronaca. Era usanza, in un passato ormai lontano, che gli artigiani, calzolai, sarti, falegnami…, si recassero ogni anno nelle residenze di campagna dei signorotti ucriesi per provveder la loro famiglia, gli inservienti e quanti lì abitavano del necessario, scarpe, vestiti, mobili... Naturalmente, per l’occasione, tutti si preoccupavano di non fare brutta figura, in modo tale che il committente continuasse a servirsi del loro lavoro. Una delle tante volte, il mio bisnonno, assieme a qualche lavorante, si portò dietro anche il figlioletto, tutto agghindato, col vestito della festa e le scarpe nuove, per presentarlo al nobilotto “chi ‘u ddingava”, si serviva, cioè, della sua opera di calzolaio. Questi per far un complimento all’eleganza (?) del bimbo, se ne sarebbe uscito con la seguente espressione: “Ch’è beddu! Pari ‘u principi di Palagunia!”. A dire il vero pare che quest’ultimo fosse conosciuto più per la sua bruttezza che per l’eleganza, ma la frase fu letta dai presenti nel senso positivo con cui del resto era stata pronunciata. La cosa fu risaputa e, da allora in poi, per tutti i compaesani mio nonno sarebbe stato Ninu Palagunia.
  Una tale origine del soprannome non mi ha mai pienamente convinto e ho sempre sospettato che l’aneddoto non fosse altro che una invenzione fantasiosa (non credo dello stesso mio padre, che deve averla ascoltata da altri) per dare una spiegazione di un fatto di cui non avevano la benché minima idea. Lo stesso meccanismo, per intenderci, per il quale i greci (e i romani con loro) si inventarono certi miti di fondazione delle loro città e gli ucriesi di oggi continuano a straparlare di non meglio precisate origini arabe del paese. Ad escluder definitivamente questa presunta origine del soprannome è intervenuta nel tempo la circostanza che esso è riferito in un documento già ad un antenato del nonno, che non può essere dunque il bimbo dell’aneddoto.
  Quale ne può essere allora la vera genesi? Le ipotesi praticabili sono due: o si tratta anche in questo caso di un originario secondo cognome poi trasformatosi in ‘nciuria (e a sostegno si può addurre il fatto che Palagonia è ancora oggi esistente in Sicilia come cognome[1]); o sta ad indicare una origine allotria, da Palagonia, città del catanese, dei Pinzone, la cui presenza ad Ucria non è antichissima e risale, a giudicare dalle  indagini condotte da mio padre nel libro dei battesimi della nostra parrocchia, alla fine del Settecento o ai primi dell’Ottocento. Ragionamenti analoghi potrebbero spiegare l’origine di altri soprannomi, come Miniu (proveniente da Mineo?) e forse anche Capizzi[2].
  Qualche dubbio sulla seconda spiegazione (che io ritengo comunque la più verisimile) nasce però dal fatto che in simili occasioni, quando si voleva individuare un individuo evidenziandone la provenienza forestiera, normalmente si usava non il nome del paese o della città di provenienza, ma l’aggettivo, l’etnonimo. Tra i soprannomi ucriesi raccolti da me e da mio padre ce ne sono parecchi di tal genere, come si evince dall’elenco che qui riporto:
Barciallunisi
Bolognisi
Brulitanu
Casalotu
Crastalluciatu (da Castel di Lucio?)
Durnisi (da Adernò, Adrano)
Giusana
Iacitanu
Liparotu
Lirvizzanu (da Librizzi)
Malittaru (da Maletto)
Missinisi
Nasitanu
Pattisanu
Paturnisi
Pirajinaru
Pirajinisi
Raccuiotu
Rannazzisi
Sanfratiddanu
Sanghirgiotu (da San Giorgio)
Santanciulisi
Sinagrisi
Tripicianu (da Tripi)
Turturiciana
  Assimilabili a questi sono anche Bilinotu, Marzanotu, Prasticulisi, che rimandano a provenienza da contrade del territorio ucriese, nonché Miricanu, Francisi che indicano una provenienza non da altri paesi o città, ma da nazioni straniere.
  L’uso di questa particolare tipologia di soprannomi, diffusa ampiamente in tutta la Sicilia e non solo[3], induce a qualche riflessione. Da un lato, attestano sia pur sporadici movimenti migratori verso il nostro paese (dovuti probabilmente a matrimoni o esigenze lavorative), dall’altro sono la testimonianza di come gente che venisse da fuori e si stanziasse in paese potesse essere percepita come qualcosa di estraneo al corpo  civico, almeno nella prima fase dello stanziamento. A partire, infatti, dalla seconda generazione risultano poi completamente accettati e assorbiti. Nessun ucriese, oggi, di fronte a soprannomi come Durnisi, Malittaru, Sanfratiddanu, Santanciulisi, dubiterebbe minimamente della piena ucriesità degli interessati, a dispetto del fatto che i loro antenati provenivano da Adrano, da Maletto, San Fratello e Sant’Angelo di Brolo.
  La cautela e la diffidenza con cui in passato si accoglievano i forestieri erano all’ordine del giorno in epoche in cui gli atteggiamenti municipalistici, campanilistici, erano dominanti ed erano alimentati dalla difficoltà degli spostamenti che favoriva il rinchiudersi in se stessa di ogni comunità. Dietro la rivalità con i centri viciniori c’erano spesso anche precisi interessi di vario genere, ma c’erano anche pregiudizi spesso infondati, che si tramandavano di padre in figlio.
  Gli specialisti mettono in collegamento tali dinamiche di contrapposizione con la volontà di definizione del proprio “io”, che spingeva a contrapporsi con tutto ciò che, essendo altro, deve necessariamente distinguersi e lo fa quasi sempre attraverso l’attribuzione di caratteristiche deteriori. A questa logica bisogna rifarsi per capire strane usanze come quella di considerare cornuti tutti gli abitanti dei paesi viciniori: l’unica cosa che cambiava era la qualità delle corna, che potevano essere tisi, sani o coti a seconda che l’etnonimo terminasse in –isi, -oti o –ani, per cui i Raccujisi erano cu ‘i corna tisi, i Crioti cu ‘i corna coti, i  Turturiciani cu ‘i corna sani e così via. Queste formule sentenziose, che tutti ricordiamo, di solito non avevano agganci col reale e dovevano la loro diffusione a vari motivi, tra cui quello della facilità di ricordarle per via dell’assonanza. Rientravano in quelli che gli studiosi definiscono soprannomi etnici proverbiali e aneddotici[4].
  Per quanto riguarda i soprannomi etnici – che Pitrè preferiva chiamare blasoni etnici – gli abitanti dei paesi viciniori ce ne affibbiavano diversi. Personalmente non ricordo di averli mai sentiti, ma ne ho trovata traccia scritta in qualche pubblicazione e qui li riporto:
-  Crioti, malicori, tutti faccia e nenti cori
-  Criani cani
-  Ucrioti, buffi ‘nta i favi
  Naturalmente nessun paese ne era esente. I sinagresi e i nasitani, ad esempio, chiamavano i ficarresi ‘nfurnacannili, soprannome collegato con un aneddoto secondo cui avrebbero messo le candele nel forno per asciugarle. Ad assolvere i ficarresi da una tale accusa di dabbenaggine basterà ricordare come un episodio analogo sia ricordato dal Lanza, nei suoi Mimi siciliani, in riferimento ai nicosiani. A proposito di cera sciolta, anche gli ucriesi erano tirati in ballo. Per sfotterci a Raccuia raccontano che in una occasione qualcuno avrebbe messa nel forno la statuetta di Gesù Bambino. Trovatola, come era ovvio, sciolta per il calore, avrebbe esclamato: “Chistu è lu veru Diu! Scinniu, pisciau e si ‘nni jiu!”. A smontare il tutto, a parte l’inverosimiglianza del fatto, basterebbe  ricordare come gli ucriesi non dicano Diu (indispensabile per la rima) ma Dia (Comu voli Dia!).
Altro soprannome etnico aneddotico affibbiatoci è quello secondo il quale durante la festa patronale, mentre passava il fercolo col Cristo della Pietà, sarebbe andato a fuoco il forno di una anziana ucriese intenta a fare il pane. Affacciatasi di corsa alla finestra avrebbe allora gridato: “Scappa, Cristu, chi ti bruci!
  Il terzo dei blasoni etnici ucriesi sopra riportato (“buffi ‘nta i favi”) è riferito dal Pitrè[5] ed è di non facile comprensione. Secondo qualcuno[6] avrebbe il significato di “villanzoni, goffi al pari di rane in una piantagione di fave”. Più correttamente, a mio parere, il Burgio[7] lo collega al più famoso soprannome etnico aneddotico che ci riguarda.
O unchi, o sdunchi, a mani i don Jacintu a essiri”. Più o meno tutti, almeno quelli di una certa età, abbiamo sentito questa frase. E’ inserita nel contesto di un aneddoto con cui ci prendono in giro nei paesi dei dintorni, a Raccuja in particolare. Il Giacinto in questione era il proprietario di un podere assegnato in mezzadria a un contadino, che ci avrebbe piantato delle fave. Al tempo del raccolto si accorse però che qualcuno se le mangiava, di notte, e decise di scoprire chi fosse. Si appostò e colse il ladro sul fatto: era una rana, che, come nella sua natura, stava a prendersi il fresco, gonfiando e sgonfiando le gote. A questo punto avrebbe pronunciato la frase fatidica, stando ad indicare che l’avrebbe comunque condotta dal proprietario per giustificarsi del fatto che non gli poteva dare la metà promessa delle fave perché la rana se le era mangiate.
Anche in questo caso l’episodio è inventato e tra l’altro noi ucriesi non possiamo vantarne l’esclusiva, non possiamo attribuircene la paternità, dal momento che, in termini pressoché uguali, è riferito agli abitanti di Longi, che anche per questo vengono definiti stupidi nei paesi viciniori: ad esso si collega, infatti, l’origine di un soprannome molto diffuso che li riguarda, “babbu i Lonci”.




[1] Collegabile con Il titolo dei  principi di Palagonia, o, come ritengo possa essere il caso dei miei antenati, se è vera l’ipotesi avanzata nel testo, con la diffusa usanza di chiamare gli ebrei convertiti al cristianesimo con nomi di paesi o città (Messina, Catania, Palermo, Trapani…)
[2] Altro soprannome con nome di città era Addisabbebba, nato sicuramente ai tempi della spedizione etiopica.
[3] Notoriamente molti attuali cognomi hanno la stessa origine: Siracusano, Genovese, Pisani, Romano, Malfitano, Napolitano, Catanese, Venezian, ecc.
[4] Cfr. M. Burgio, Soprannomi etnici proverbiali e aneddotici in Sicilia. Qualche esempio dal corpus DASES, in “Boll. Centro Stud. Filol. e Linguist. Sic.”, 24, 2013, 253-271.
[5] G. Pitrè, Cartelli, Pasquinate, Canti, Leggende, Usi del popolo siciliano, Palermo 1913, 128.
[6] Si tratta di B. Arona, I ‘ngiuri dei paesi, dattiloscritto (citato da Burgio, Soprannomi etnici, cit., 269, n. 49, che ne individua la probabile fonte in Pitrè, Cartelli, cit.; o in N. Falcone (a cura di), Almanaccu Sicilianu, Patti 1979).
[7] Burgio Soprannomi etnici, cit. 268 s.

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