NOTERELLE UCRIESI 5
TERZE
DIVAGAZIONI ONOMASTICHE: SOPRANNOMI E PROVENIENZA
Nino Pinzone “Palagunia”
Chi ha avuto la ventura di leggere le mie
precedenti divagazioni onomastiche,
avrà sicuramente notato come il comune punto di partenza sia stato il
soprannome di due dei quattro rami della mia famiglia di origine, ed esattamente
Manueli, soprannome della mia nonna
paterna, e Fruntinu, soprannome del
mio nonno materno. Due dunque ne restano e di essi mi accingo a trattare in
queste terze divagazioni. Si tratta della ‘nciuria
della famiglia della mia nonna materna, Maria Rosaria Algeri, e di quella del
mio nonno paterno, Nino Pinzone, rispettivamente Taschitta e Palagunia.
Entrambe le ‘nciurie erano già
esistenti nella prima metà dell’Ottocento, a giudicare dal fatto che compaiono
in documenti della metà di tale secolo. Proprio uno di questi, che riporta
l’interessante elenco dei componenti della guardia nazionale di Ucria, consente
di spiegare il soprannome Taschitta
alla stessa stregua di Fruntinu: era
in realtà la sicilianizzazione del secondo cognome, col tempo non più percepito
come tale e sopravvissuto comunque come soprannome. La forma originaria era
Taschetta, cognome ancora oggi esistente in diverse aree della Sicilia.
Più complicate sono invece le cose per il
secondo soprannome, Palagunia.
Per spiegarlo, dietro mia incuriosita richiesta, mio padre mi riferì un
aneddoto, che qui riporto per onor di cronaca. Era usanza, in un passato ormai
lontano, che gli artigiani, calzolai, sarti, falegnami…, si recassero ogni anno
nelle residenze di campagna dei signorotti ucriesi per provveder la loro famiglia,
gli inservienti e quanti lì abitavano del necessario, scarpe, vestiti, mobili...
Naturalmente, per l’occasione, tutti si preoccupavano di non fare brutta figura,
in modo tale che il committente continuasse a servirsi del loro lavoro. Una
delle tante volte, il mio bisnonno, assieme a qualche lavorante, si portò
dietro anche il figlioletto, tutto agghindato, col vestito della festa e le
scarpe nuove, per presentarlo al nobilotto “chi
‘u ddingava”, si serviva, cioè, della sua opera di calzolaio. Questi per
far un complimento all’eleganza (?) del bimbo, se ne sarebbe uscito con la
seguente espressione: “Ch’è beddu! Pari
‘u principi di Palagunia!”. A dire il vero pare che quest’ultimo fosse
conosciuto più per la sua bruttezza che per l’eleganza, ma la frase fu letta
dai presenti nel senso positivo con cui del resto era stata pronunciata. La
cosa fu risaputa e, da allora in poi, per tutti i compaesani mio nonno sarebbe
stato Ninu Palagunia.
Una tale origine del soprannome non mi ha
mai pienamente convinto e ho sempre sospettato che l’aneddoto non fosse
altro che una invenzione fantasiosa (non credo dello stesso mio padre, che deve
averla ascoltata da altri) per dare una spiegazione di un fatto di cui non
avevano la benché minima idea. Lo stesso meccanismo, per intenderci, per il
quale i greci (e i romani con loro) si inventarono certi miti di fondazione delle
loro città e gli ucriesi di oggi continuano a straparlare di non meglio precisate
origini arabe del paese. Ad escluder definitivamente questa presunta origine del
soprannome è intervenuta nel tempo la circostanza che esso è riferito in un
documento già ad un antenato del nonno, che non può essere dunque il bimbo
dell’aneddoto.
Quale ne può essere allora la vera genesi? Le ipotesi praticabili sono due: o si
tratta anche in questo caso di un originario secondo cognome poi trasformatosi
in ‘nciuria (e a sostegno si può
addurre il fatto che Palagonia è ancora oggi esistente in Sicilia come cognome[1]);
o sta ad indicare una origine allotria, da Palagonia, città del catanese, dei
Pinzone, la cui presenza ad Ucria non è antichissima e risale, a giudicare
dalle indagini condotte da mio padre nel
libro dei battesimi della nostra parrocchia, alla fine del Settecento o ai
primi dell’Ottocento. Ragionamenti analoghi potrebbero spiegare l’origine di
altri soprannomi, come Miniu (proveniente
da Mineo?) e forse anche Capizzi[2].
Qualche dubbio sulla seconda spiegazione
(che io ritengo comunque la più verisimile) nasce però dal fatto che in simili
occasioni, quando si voleva individuare un individuo evidenziandone la
provenienza forestiera, normalmente si usava non il nome del paese o della
città di provenienza, ma l’aggettivo, l’etnonimo. Tra i soprannomi ucriesi
raccolti da me e da mio padre ce ne sono parecchi di tal genere, come si evince
dall’elenco che qui riporto:
Barciallunisi
Bolognisi
Brulitanu
Casalotu
Crastalluciatu (da Castel di Lucio?)
Durnisi (da Adernò, Adrano)
Giusana
Iacitanu
Liparotu
Lirvizzanu (da Librizzi)
Malittaru (da Maletto)
Missinisi
Nasitanu
Pattisanu
Paturnisi
Pirajinaru
Pirajinisi
Raccuiotu
Rannazzisi
Sanfratiddanu
Sanghirgiotu (da San Giorgio)
Santanciulisi
Sinagrisi
Tripicianu (da Tripi)
Turturiciana
Assimilabili a questi sono anche Bilinotu, Marzanotu, Prasticulisi,
che rimandano a provenienza da contrade del territorio ucriese, nonché Miricanu, Francisi che indicano una provenienza non da altri paesi o città,
ma da nazioni straniere.
L’uso di questa particolare tipologia di
soprannomi, diffusa
ampiamente in tutta la Sicilia e non solo[3],
induce a qualche riflessione. Da un lato, attestano sia pur sporadici movimenti
migratori verso il nostro paese (dovuti probabilmente a matrimoni o esigenze
lavorative), dall’altro sono la testimonianza di come gente che venisse da
fuori e si stanziasse in paese potesse essere percepita come qualcosa di estraneo
al corpo civico, almeno nella prima fase
dello stanziamento. A partire, infatti, dalla seconda generazione risultano poi
completamente accettati e assorbiti. Nessun ucriese, oggi, di fronte a
soprannomi come Durnisi, Malittaru, Sanfratiddanu, Santanciulisi,
dubiterebbe minimamente della piena ucriesità degli interessati, a dispetto del
fatto che i loro antenati provenivano da Adrano, da Maletto, San Fratello e
Sant’Angelo di Brolo.
La cautela e la diffidenza con cui in
passato si accoglievano i forestieri erano all’ordine del giorno in epoche
in cui gli atteggiamenti municipalistici, campanilistici, erano dominanti ed
erano alimentati dalla difficoltà degli spostamenti che favoriva il
rinchiudersi in se stessa di ogni comunità. Dietro la rivalità con i centri
viciniori c’erano spesso anche precisi interessi di vario genere, ma c’erano
anche pregiudizi spesso infondati, che si tramandavano di padre in figlio.
Gli specialisti mettono in collegamento
tali dinamiche di contrapposizione con la volontà di definizione del
proprio “io”, che spingeva a contrapporsi con tutto ciò che, essendo altro,
deve necessariamente distinguersi e lo fa quasi sempre attraverso
l’attribuzione di caratteristiche deteriori. A questa logica bisogna rifarsi
per capire strane usanze come quella di considerare cornuti tutti gli abitanti
dei paesi viciniori: l’unica cosa che cambiava era la qualità delle corna, che
potevano essere tisi, sani o coti a seconda che l’etnonimo terminasse in –isi, -oti o –ani, per
cui i Raccujisi erano cu ‘i corna tisi, i Crioti cu ‘i corna coti, i Turturiciani cu ‘i corna sani e così via.
Queste formule sentenziose, che tutti ricordiamo, di solito non avevano agganci
col reale e dovevano la loro diffusione a vari motivi, tra cui quello della
facilità di ricordarle per via dell’assonanza. Rientravano in quelli che gli
studiosi definiscono soprannomi etnici proverbiali e aneddotici[4].
Per quanto riguarda i soprannomi etnici – che Pitrè preferiva chiamare blasoni
etnici – gli abitanti dei paesi viciniori ce ne affibbiavano diversi.
Personalmente non ricordo di averli mai sentiti, ma ne ho trovata traccia
scritta in qualche pubblicazione e qui li riporto:
-
Crioti, malicori, tutti faccia e nenti
cori
-
Criani cani
-
Ucrioti, buffi ‘nta i favi
Naturalmente nessun paese ne era esente.
I sinagresi e i nasitani, ad esempio, chiamavano i ficarresi ‘nfurnacannili, soprannome collegato con
un aneddoto secondo cui avrebbero messo le candele nel forno per asciugarle. Ad
assolvere i ficarresi da una tale accusa di dabbenaggine basterà ricordare come
un episodio analogo sia ricordato dal Lanza, nei suoi Mimi siciliani, in riferimento ai nicosiani. A proposito di cera
sciolta, anche gli ucriesi erano tirati in ballo. Per sfotterci a Raccuia
raccontano che in una occasione qualcuno avrebbe messa nel forno la statuetta
di Gesù Bambino. Trovatola, come era ovvio, sciolta per il calore, avrebbe
esclamato: “Chistu è lu veru Diu!
Scinniu, pisciau e si ‘nni jiu!”. A smontare il tutto, a parte
l’inverosimiglianza del fatto, basterebbe
ricordare come gli ucriesi non dicano Diu (indispensabile per la rima) ma Dia (Comu voli Dia!).
Altro
soprannome etnico aneddotico
affibbiatoci è quello secondo il quale durante la festa patronale, mentre
passava il fercolo col Cristo della Pietà, sarebbe andato a fuoco il forno di
una anziana ucriese intenta a fare il pane. Affacciatasi di corsa alla finestra
avrebbe allora gridato: “Scappa, Cristu,
chi ti bruci!”
Il terzo dei blasoni etnici ucriesi sopra
riportato (“buffi ‘nta i favi”) è riferito dal Pitrè[5]
ed è di non facile comprensione. Secondo qualcuno[6]
avrebbe il significato di “villanzoni, goffi al pari di rane in una piantagione
di fave”. Più correttamente, a mio parere, il Burgio[7]
lo collega al più famoso soprannome etnico aneddotico che ci riguarda.
“O unchi, o sdunchi, a mani i don Jacintu a
essiri”. Più o
meno tutti, almeno quelli di una certa età, abbiamo sentito questa frase. E’
inserita nel contesto di un aneddoto con cui ci prendono in giro nei paesi dei
dintorni, a Raccuja in particolare. Il Giacinto in questione era il
proprietario di un podere assegnato in mezzadria a un contadino, che ci avrebbe
piantato delle fave. Al tempo del raccolto si accorse però che qualcuno se le
mangiava, di notte, e decise di scoprire chi fosse. Si appostò e colse il ladro
sul fatto: era una rana, che, come nella sua natura, stava a prendersi il
fresco, gonfiando e sgonfiando le gote. A questo punto avrebbe pronunciato la
frase fatidica, stando ad indicare che l’avrebbe comunque condotta dal
proprietario per giustificarsi del fatto che non gli poteva dare la metà
promessa delle fave perché la rana se le era mangiate.
Anche
in questo caso l’episodio è inventato e tra l’altro noi ucriesi non possiamo
vantarne l’esclusiva, non possiamo
attribuircene la paternità, dal momento che, in termini pressoché uguali, è
riferito agli abitanti di Longi, che anche per questo vengono definiti stupidi
nei paesi viciniori: ad esso si collega, infatti, l’origine di un soprannome
molto diffuso che li riguarda, “babbu i
Lonci”.
[1] Collegabile con
Il titolo dei principi di Palagonia, o,
come ritengo possa essere il caso dei miei antenati, se è vera l’ipotesi
avanzata nel testo, con la diffusa usanza di chiamare gli ebrei convertiti al
cristianesimo con nomi di paesi o città (Messina, Catania, Palermo, Trapani…)
[2] Altro soprannome
con nome di città era Addisabbebba,
nato sicuramente ai tempi della spedizione etiopica.
[3] Notoriamente
molti attuali cognomi hanno la stessa origine: Siracusano, Genovese, Pisani,
Romano, Malfitano, Napolitano, Catanese, Venezian, ecc.
[4] Cfr. M. Burgio,
Soprannomi etnici proverbiali e
aneddotici in Sicilia. Qualche esempio dal corpus DASES, in “Boll. Centro
Stud. Filol. e Linguist. Sic.”, 24, 2013, 253-271.
[5] G. Pitrè, Cartelli, Pasquinate, Canti, Leggende, Usi
del popolo siciliano, Palermo 1913, 128.
[6] Si tratta di B.
Arona, I ‘ngiuri dei paesi,
dattiloscritto (citato da Burgio, Soprannomi
etnici, cit., 269, n. 49, che ne individua la probabile fonte in Pitrè, Cartelli, cit.; o in N. Falcone (a cura
di), Almanaccu Sicilianu, Patti 1979).
[7] Burgio Soprannomi etnici, cit. 268 s.
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