La
Gita ad… UCRIA
Luigi Pinci
Qualche settimana fa, l’amico avv. Giuseppe Salpietro,
ha avuto la cortesia di raggruppare un gruppo di amici messinesi e condurli ad Ucria. Quando il pullman
è arrivato a destinazione, Giuseppe, era lì ad attenderci, con il solito cordiale sorriso, e da quel momento è cominciata l’“Escursione” attraverso le stradine, le viuzze di un Paese” a me
completamente sconosciuto.
Qualche notizia l’avevo attinta dalla lettura dei “Quadretti” che Giuseppe ha
recentemente pubblicato e presentato. Oltre che essere un Paese immerso nel Parco dei Nebrodi, avevo appreso qualche
altra notizia che aveva caratterizzato questo “pezzetto” di Sicilia negli anni
Sessanta. Nient’altro. Rimaneva
comunque, per me, anonimo.
La strada principale, quella di “accesso” ci condusse al “Centro” non tanto
storico, a prima vista, considerato che vecchie strutture sono state accostate”
ad altre che nulla dicono o rappresentano di storico. Mi sembrava di vedere un vecchio scialle con rattoppi di tessuto e
manifattura diverse che avevano stravolto la originalità e preziosità del
manufatto.
Distolto lo sguardo da quelle strutture, puntai sul
particolare: sugli archi di pietra fatti
da abili scalpellini, che segnano l’ingresso delle abitazioni in un
continuum architettonico che avevo già visto in altri Paesini della nostra
Sicilia. Compresi in quel momento che stava cominciando a prendermi un senso di appartenenza ad Ucria, perché
esso non riusciva a disgiungersi da quello che avevo provato nel visitare, Forza d’Agrò, Patti (parte antica), etc.
Era un senso di appartenenza alla Sicilia, alla
mia terra, trasferito da quelle pietre al mio modo di sentire, di percepire
quel luogo. Mi sono chiesto quanti abitanti di Ucria, specialmente
quelli appartenenti alle ultimissime generazioni, riescono a “percepire” la bellezza, l’arte, la sapienza, cosa c’è
dietro ogni pietra, ogni stemma raffigurato in un arco che ha rappresentato
o rappresenta qualcosa che affonda le sue radici in un passato recente o molto
lontano. Come capita a tutti, non osserviamo e non riusciamo a cogliere le
bellezze che ci stanno accanto, che sono
parte integrante della nostra cultura.
Continuando la
“passeggiata” ci siamo addentrati nel vero vecchio cuore di Ucria. L’amenità del luogo, caratterizzato da
noccioleti che hanno rappresentato l’economia di questo Paese, “nasconde” delle
preziosità: alcune strutture, per lo più Chiese, dietro le quali c’è tanta
storia, tanta arte, tanto passato, poco futuro.
Alcuni case “semidiroccate” sono l’attrazione per chi
le scopre, evidenziandosi tra costruzioni nuove o rifatte che caratterizzano un assetto urbanistico “fantasioso”.
Volendo leggere la storia di quelle mura si va in una dimensione fuori dal
tempo: si percepisce come in pochi metri quadrati convivevano gli animali, le
persone, c’era il forno (per scaldarsi e per panificare), i balconcini dal
terrazzo ridotto, usato forse soltanto per metterci alcuni vasi con il
basilico, il prezzemolo, la menta. Uno degli scuri “ingloba” una parte che
quand’era aperta serviva per il ricambio dell’aria, ma anche per vedere chi
passava, per scambiare due chiacchere con chi veniva a salutare la comare, il
cognato, i nipotini. Le cerniere degli
infissi, le inferriate dei balconi o delle finestrelle giacciono logore,
arrugginite dal tempo che inesorabilmente le sta distruggendo e le porterà via
privando chiunque di vedere ancora, anche in quei moncherini, la propria
appartenenza (a quella terra), fatta di sacrifici, di povertà, ma anche di
dignità, di amicizia e di una socializzazione che non si riesce nemmeno ad
immaginare.
A stigmatizzare come vari concetti si assoggettano a
diverse chiavi di lettura, non posso fare a meno di citare la sorpresa che mi
colse nel vedere un’indicazione stradale che segnalava la Piazza dov’è una
scultura che rappresenta l’emigrante.
Credevo di trovarmi di fronte ad
un’opera che riportava la memoria allo stereotipo di un contadino, un po’
rozzo, con le scarpe grosse, con la coppola e con la valigia rinforzata con una
“passata” di spago”,
all’emigrante degli inizi del secolo scorso, costretto quasi sempre a dire
addio alla "roba", alle poche (ma le più care) cose che aveva.
Invece? La statua rappresenta un
giovane, ben vestito, con un borsello e dall’aspetto distinto,
manageriale, che stona con la valigia: unico elemento con il quale l’artista ha
"caratterizzato" il suo manufatto. Soltanto soffermandosi qualche
attimo si comprende che sempre di emigrante si tratta, ma questo appartiene
alla seconda “ondata”: negli anni Settanta partirono i “cervelli”, non più le
“braccia”. Così il più giovane, il più moderno, sembra voler cancellare l’ombra
della fame più nera ed esaltare la speranza di un riscatto che alla fine non
sempre produrrà benessere né per sé né per la terra che ha dovuto lasciare.
Scema così sempre più il concetto di appartenenza, la voglia di scoprire le
proprie radici e, la pur folta vegetazione di noccioli, non può rimpiazzare le fronde
di una generazione disinnamorata, disillusa, fuorviata dalla tecnologia che ha
invaso anche il più remoto e segreto angolo della nostro sentire.
Messina, 06 giugno 2016
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