I RAGAZZI
DELLA VIA PAL – ITTO
Mario Angelo
Nici
Marcello
Maria Nici era mio
cugino, ed un poco lo invidiavo,
per il suo perenne sorriso, solo di tanto in tanto velato da una fugace
nota di malinconia, che faceva da controcanto alla mia perenne congenita tristezza.
Era nato come me, a Piano Palitto, a trenta o quaranta passi, nella via Caffuti del popolare
quartiere Caffuti. Nome
cacofonico, quest'ultimo, che per anni ho odiato cercando di
schermirlo sotto la denominazione della contigua via S. Michele, e poi
infine di nobilitare sfruttando la sua etimologia araba, vera o presunta,
di “quartiere alto”.
Per molto tempo, di fatti, ho
avuto seri problemi a declinare le mie generalità: dicevo “caffuti” e
rispondevano “comeee?”, pronunciavo “nici” e scrivevano “mici” o “amici”. Marcello, che probabilmente
viveva le stesse angustie, ma con stato d'animo più disincantato, mi aveva
tolto da ogni imbarazzo chiamandomi affettuosamente “dr.
Amici” vita natural durante.
Da ragazzi, io quasi adolescente, lui
bambino, giocavamo lungo i sottostanti declivi della
“timpa” tra tracce di sentieri scoscesi, isolotti di rovi,
cumuli di immondizia e sporgenze di pietra. Lo scenario cambiava
sempre in maniera sorprendente, come il set di un
film d’azione o dei film eroici di Ridley Scott, in quanto bastava
un forte acquazzone, un tumulto di vento, per disegnare nuovi intriganti
sterrati e nuove immaginarie praterie; una piccola Cinecittà, la nostra
"timpa", e tutta per noi. E se natura mancava, la mano umana provvedeva,
scaricando scatoli di cartone e vecchie ferraglie contorte, che diventavano
grotte incantate e macchine del tempo o, a seconda della bisogna,
inespugnabili fortini e letali armi da guerra. A quei tempi avevo già
letto “I ragazzi della Via Pàl”,
e mi ero subito appassionato a quelle storie di sassaiole, alle
lotte, che a me sembravano epiche più dell’Iliade, tra bande di
ragazzini di un quartiere assai lontano dal mio, dentro una città
sconosciuta, ma che poteva essere il mio. Parteggiavo ora per l’uno
ora per l’altro di quei ragazzi che erano tanto simili ai miei compagni di
giochi e avevo trasmesso questo mio entusiasmo al piccolo Marcello Maria, raccontandogli spezzoni
di quel romanzo, da me liberamente reinterpretati, come solo la fantasia
mirabolante di un ragazzino potrebbe fare. Nasceva in quel
momento in noi il desiderio di spendere la vita in qualche avventura
audace, possibilmente spericolata, che valesse la pena di essere
vissuta. Avevo ascoltato a scuola, grazie al buon Gioacchino Allia, grande maestro a
cui devo la mia passione per la lettura, numerosi passi dei libri di Verne e di
Salgari, ma quelle peripezie al centro della terra o negli abissi profondi o
sospesi sopra le nubi, tra corsari, principesse, feroci tigri erano lontane e
inaccessibili. Mentre l'amica strada di pietra
acciottolata davanti casa, con il suo lungo parapetto
grigioverde muschiato, e il meraviglioso dirupo sottostante, dove
giocare, a forti tinte olivastre, chiazzate di tabacco bruciato, li vedevo
tutti i giorni. Desideravo essere anche io come Boka,
carismatica figura di leader, capace di organizzare i suoi uomini,
di motivarli, e anche di riconoscere i propri limiti ed errori. Qui con
Marcello abbiamo maturato tanti sogni in comune, sogni di
briganti ed eroi, di mappe e tesori da scoprire, di fantastiche fughe e di
fiere grandezze, di mondi da conquistare. Ed a questi ricordi dell'era felice,
quella infantile, si riferiva quando mi salutò, con disarmante tenerezza, poco
prima di andarsene, con le parole
"ciao compagno di una vita", il sorriso sempre incredibilmente
sulle labbra, dentro un volto tirato e smunto, ma mai sconfitto.
Due vecchie foto in
bianco e nero di Nino Signorino avevano colto alcuni istanti di quel nostro tempo
insieme, frammenti d'immagini ingiallite che io non riesco purtroppo più a
trovare. Le ho cercate per giorni e giorni, per fissare la memoria di quel
nostro tempo infantile ed evitare che venisse cancellata, come un
intero file su un pc. In altri casi forse la morte può
giustificarsi come il naturale esito di un processo biologico, ma qui no. É uno
"scandalo, l'irruzione scandalosa del niente nel nostro teatro dei gesti e
degli affetti", e, nel mio caso, anche sulla commovente biblioteca dei
ricordi, che non sono stato neanche in grado di preservare e custodire. E riprendo a cercare quelle foto perdute.
Io mi sentivo un capitano di ventura nato;
probabilmente mi sopravvalutavo, dato che poi la mia prima scheda attitudinale,
compilata al CAR dell'89* Battaglione
Generale Cascino di Salerno, riportava impietosamente nero su bianco
"scarsa attitudine al comando". Lui era invece attore nato. Ma veramente.
Recitava fin da allora, con una spontaneità che copriva bene le innocenti
bugie di bambino e gli evitava spesso le punizioni, che erano la regola
quotidiana nelle aule scolastiche di allora. Ha conservato, secondo me, negli anni grandi possibilità per dimostrare
le sue capacità espressive. Il suo carattere restio però, che in fondo era
il risultato della sua placidità e del suo mite temperamento, l'ha tenuto
alla fine sempre lontano dalla tentazione di esperire vie più impegnative. E
poi nel nostro profondo sud e nel nostro recondito entroterra non si può dire
certo che le opportunità fioccassero come la neve nei giorni della merla. Come
attore naïf viveva e rendeva ora con pacata misura ora con fragoroso trasporto
gli umori e le emozioni dei personaggi in cui si calava. Lo sorreggevano una sana ironia familiare,
ereditata dal padre, e il buon senso tipico dell'animo siciliano. Il
dialetto era il suo intimo modo di reagire alle difficoltà sceniche, alle
esigenze del personaggio famoso, al pericolo di non restare solo con se
stesso sul palcoscenico, improvvisamente avulso dal soggetto rappresentato,
come un re nudo. La sua innata vis comica, inoltre, a tratti ermetica,
tuttavia sempre presente, lo tratteneva sempre dal cadere nel banale o nel
retorico. Il mio giudizio su di lui forse era condizionato quasi da un problema
personale, ne ero fiero e un poco indispettito, allo stesso tempo; a volte
infatti lo criticavo dentro di me perché non ammettevo che il suo orgoglio si
accontentasse di impegnare il suo talento, sia pure non affinato presso alcuna
scuola, solo nelle sagre del paese. Mi capitava di sopraggiungere in piazza
Padre Bernardino d'estate, fine anni '80 primi '90, vederlo recitare e dire a
me stesso "sarò felice il giorno in
cui lo vedrò recitare un grande capolavoro magari in teatro",
finalmente padrone esclusivo di un ruolo umano ed espressivo tutto suo. Entro
un grande film di parole, gesti e musica. L'avrebbe meritato. Una di quelle volte, Marcello, che aveva una
grande stima e considerazione di me, oltre
che l'affetto di un fratello, mi chiese alla fine della commedia che cosa ne
pensassi della sua recitazione. Ero rimasto un po' indispettito per la
calca della piazza, sempre rinfocolata dal transito intermittente delle auto, e
per l'eccessivo rumore di fondo, e ricordo, come fosse ora, la mia risposta un
po' ambigua. Di quella risposta mi pentii subito dopo; peccato che non abbia
poi trovato il modo ed il tempo per dirglielo. Talora le parole non dette te le
porti dietro per sempre e pesano come macigni. Però sono sicuro che lui abbia
capito questo mio cruccio, perché alcune sere fa, dopo l'ennesima sconfitta
della nostra Inter contro il Sassuolo, mentre cercavo di postare meccanicamente
un commento sul nostro gruppo FB di sfigati interisti, mi sono improvvisamente
reso conto che lui non c'era più ed è subito riaffiorato il ricordo di quella
sera di tanti anni prima, assieme al mio senso di colpa, rinnovato, ma non per
questo meno acuto. Ho chiuso il tablet ed ho guardato idealmente, senza rendermene
conto, verso quel punto la ... il grigio
colombario del cimitero, ove l'avevo accompagnato assieme ai suoi cari nel
suo ultimo viaggio, e nel frattempo un
senso di vuoto....una pena infinita, montante come un'onda di marea. Poi
l'ho visto, all'improvviso, dietro il gelo dell'oltre frontiera, o almeno così
mi é parso...sorrideva, e mi sono sorpreso a sorridere anch'io, ... come ad una
impercettibile carezza.
Era sempre lui a confortarmi dopo le batoste
nerazzurre, e l'aveva fatto anche stavolta.
Marcello Maria é andato via il
giorno dopo la nascita della mia ed anche sua Maria Rita, un'altra ragazza
della via Pàl (itto), quasi in
una sorta di cerchio ideale che forse così doveva chiudersi. Non so se qualche
parte ci sia un superiore destino già scritto. Mi piace pensare di si, che non
sia solo un caso, che le nostre esistenze non siano banali, che ci sia una
sorta di invisibile filo di Arianna nelle nostre vite, trasparente ma
immanente. In questo caso Marcello Maria porterà con le sue rappresentazioni un
po’ di brio nell’azzurro del nostro al di la’ e strapperà un sorriso anche al
serioso San Pietro, tra un caffè e l'altro.
A me resta la nostalgia di quella chiamata "ciao Dr. Amici, come stai?",
mentre dopo otto anni mi succede ancora oggi di alzare il telefono di casa per
raccontare qualcosa a Mariarita: compongo
lo 02 e solo allora mi ricordo, e riattacco. Dicono che il tempo cancella
tutto, ma quanto dura questo tempo?
E se poi quel filo di Arianna non ci fosse? Se fosse
tutto casuale, se la morte fosse assenza totale, né buio e né luce, quel buco
nero senza fondo che risucchia ogni cosa e rende vano il nostro continuo
aggrapparsi alle fate morgane dell'esistenza, allora che questo tempo duri nel
tempo! Soltanto la memoria può sottrarci, come per magia, al ritmo travolgente
del tempo ed ai suoi limiti mortali. Qualcuno
ha già detto che solo chi viene dimenticato muore davvero. Anche in tal caso
Marcello Maria non lo sarà: la tenerezza, l'amore di Elisa e Silvia sapranno
fugare l'ombra dell'oblio.
22 maggio 2016
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