martedì 14 giugno 2016

I RAGAZZI DELLA VIA PAL – ITTO di Mario Angelo Nici

I RAGAZZI DELLA VIA PAL – ITTO
Mario Angelo Nici
Marcello Maria Nici era mio cugino, ed un poco lo invidiavo, per il suo perenne sorriso, solo di tanto in tanto velato da una fugace nota di malinconia, che faceva da controcanto alla mia perenne congenita tristezza. Era nato come me, a Piano Palitto, a trenta o quaranta passi, nella via Caffuti del popolare quartiere Caffuti. Nome cacofonico, quest'ultimo, che per anni ho odiato cercando di schermirlo sotto la denominazione della contigua via S. Michele, e poi infine di nobilitare sfruttando la sua etimologia araba, vera o presunta, di “quartiere alto”.
Per molto tempo, di fatti, ho avuto seri problemi a declinare le mie generalità: dicevo “caffuti” e rispondevano “comeee?”, pronunciavo “nici” e scrivevano “mici” o “amici”. Marcello, che probabilmente viveva le stesse angustie, ma con stato d'animo più disincantato, mi aveva tolto da ogni imbarazzo chiamandomi affettuosamente “dr. Amici” vita natural durante. 
Da ragazzi, io quasi adolescente, lui bambino, giocavamo lungo i sottostanti declivi della “timpa” tra tracce di sentieri scoscesi, isolotti di rovi, cumuli di immondizia e sporgenze di pietra. Lo scenario cambiava sempre in maniera sorprendente, come il set di un film d’azione o dei film eroici di Ridley Scott, in quanto bastava un forte acquazzone, un tumulto di vento, per disegnare nuovi intriganti sterrati e nuove immaginarie praterie; una piccola Cinecittà, la nostra "timpa", e tutta per noi. E se natura mancava, la mano umana provvedeva, scaricando scatoli di cartone e vecchie ferraglie contorte, che diventavano grotte incantate e macchine del tempo o, a seconda della bisogna, inespugnabili fortini e letali armi da guerra. A quei tempi avevo già letto “I ragazzi della Via Pàl”, e mi ero subito appassionato a quelle storie di sassaiole, alle lotte, che a me sembravano epiche più dell’Iliade, tra bande di ragazzini di un quartiere assai lontano dal mio, dentro una città sconosciuta, ma che poteva essere il mio. Parteggiavo ora per l’uno ora per l’altro di quei ragazzi che erano tanto simili ai miei compagni di giochi e avevo trasmesso questo mio entusiasmo al piccolo Marcello Maria, raccontandogli spezzoni di quel romanzo, da me liberamente reinterpretati, come solo la fantasia mirabolante di un ragazzino potrebbe fare. Nasceva in quel momento in noi il desiderio di spendere la vita in qualche avventura audace, possibilmente spericolata, che valesse la pena di essere vissuta. Avevo ascoltato a scuola, grazie al buon Gioacchino Allia, grande maestro a cui devo la mia passione per la lettura, numerosi passi dei libri di Verne e di Salgari, ma quelle peripezie al centro della terra o negli abissi profondi o sospesi sopra le nubi, tra corsari, principesse, feroci tigri erano lontane e inaccessibili. Mentre l'amica strada di pietra acciottolata davanti casa, con il suo lungo parapetto grigioverde muschiato, e il meraviglioso dirupo sottostante, dove giocare, a forti tinte olivastre, chiazzate di tabacco bruciato, li vedevo tutti i giorni. Desideravo essere anche io come Boka, carismatica figura di leader, capace di organizzare i suoi uomini, di motivarli, e anche di riconoscere i propri limiti ed errori. Qui con Marcello abbiamo maturato tanti sogni in comune, sogni di briganti ed eroi, di mappe e tesori da scoprire, di fantastiche fughe e di fiere grandezze, di mondi da conquistare. Ed a questi ricordi dell'era felice, quella infantile, si riferiva quando mi salutò, con disarmante tenerezza, poco prima di andarsene, con le parole "ciao compagno di una vita", il sorriso sempre incredibilmente sulle labbra, dentro un volto tirato e smunto, ma mai sconfitto. 
Due vecchie foto in bianco e nero di Nino Signorino avevano colto alcuni istanti di quel nostro tempo insieme, frammenti d'immagini ingiallite che io non riesco purtroppo più a trovare. Le ho cercate per giorni e giorni, per fissare la memoria di quel nostro tempo infantile ed evitare che venisse cancellata, come un intero file su un pc. In altri casi forse la morte può giustificarsi come il naturale esito di un processo biologico, ma qui no. É uno "scandalo, l'irruzione scandalosa del niente nel nostro teatro dei gesti e degli affetti", e, nel mio caso, anche sulla commovente biblioteca dei ricordi, che non sono stato neanche in grado di preservare e custodire. E riprendo a cercare quelle foto perdute. 
Io mi sentivo un capitano di ventura nato; probabilmente mi sopravvalutavo, dato che poi la mia prima scheda attitudinale, compilata al CAR dell'89* Battaglione Generale Cascino di Salerno, riportava impietosamente nero su bianco "scarsa attitudine al comando". Lui era invece attore nato. Ma veramente.  Recitava fin da allora, con una spontaneità che copriva bene le innocenti bugie di bambino e gli evitava spesso le punizioni, che erano la regola quotidiana nelle aule scolastiche di allora. Ha conservato, secondo me, negli anni grandi possibilità per dimostrare le sue capacità espressive. Il suo carattere restio però, che in fondo era il risultato della sua placidità e del suo mite temperamento, l'ha tenuto alla fine sempre lontano dalla tentazione di esperire vie più impegnative. E poi nel nostro profondo sud e nel nostro recondito entroterra non si può dire certo che le opportunità fioccassero come la neve nei giorni della merla. Come attore naïf viveva e rendeva ora con pacata misura ora con fragoroso trasporto gli umori e le emozioni dei personaggi in cui si calava. Lo sorreggevano una sana ironia familiare, ereditata dal padre, e il buon senso tipico dell'animo siciliano. Il dialetto era il suo intimo modo di reagire alle difficoltà sceniche, alle esigenze del personaggio famoso, al pericolo di non restare solo con se stesso sul palcoscenico, improvvisamente avulso dal soggetto rappresentato, come un re nudo.  La sua innata vis comica, inoltre, a tratti ermetica, tuttavia sempre presente, lo tratteneva sempre dal cadere nel banale o nel retorico. Il mio giudizio su di lui forse era condizionato quasi da un problema personale, ne ero fiero e un poco indispettito, allo stesso tempo; a volte infatti lo criticavo dentro di me perché non ammettevo che il suo orgoglio si accontentasse di impegnare il suo talento, sia pure non affinato presso alcuna scuola, solo nelle sagre del paese. Mi capitava di sopraggiungere in piazza Padre Bernardino d'estate, fine anni '80 primi '90, vederlo recitare e dire a me stesso "sarò felice il giorno in cui lo vedrò recitare un grande capolavoro magari in teatro", finalmente padrone esclusivo di un ruolo umano ed espressivo tutto suo. Entro un grande film di parole, gesti e musica. L'avrebbe meritato. Una di quelle volte, Marcello, che aveva una grande stima e considerazione di me, oltre che l'affetto di un fratello, mi chiese alla fine della commedia che cosa ne pensassi della sua recitazione. Ero rimasto un po' indispettito per la calca della piazza, sempre rinfocolata dal transito intermittente delle auto, e per l'eccessivo rumore di fondo, e ricordo, come fosse ora, la mia risposta un po' ambigua. Di quella risposta mi pentii subito dopo; peccato che non abbia poi trovato il modo ed il tempo per dirglielo. Talora le parole non dette te le porti dietro per sempre e pesano come macigni. Però sono sicuro che lui abbia capito questo mio cruccio, perché alcune sere fa, dopo l'ennesima sconfitta della nostra Inter contro il Sassuolo, mentre cercavo di postare meccanicamente un commento sul nostro gruppo FB di sfigati interisti, mi sono improvvisamente reso conto che lui non c'era più ed è subito riaffiorato il ricordo di quella sera di tanti anni prima, assieme al mio senso di colpa, rinnovato, ma non per questo meno acuto. Ho chiuso il tablet ed ho guardato idealmente, senza rendermene conto, verso quel punto la ... il grigio colombario del cimitero, ove l'avevo accompagnato assieme ai suoi cari nel suo ultimo viaggio, e nel frattempo un senso di vuoto....una pena infinita, montante come un'onda di marea. Poi l'ho visto, all'improvviso, dietro il gelo dell'oltre frontiera, o almeno così mi é parso...sorrideva, e mi sono sorpreso a sorridere anch'io, ... come ad una impercettibile carezza.
Era sempre lui a confortarmi dopo le batoste nerazzurre, e l'aveva fatto anche stavolta.
Marcello Maria é andato via il giorno dopo la nascita della mia ed anche sua Maria Rita, un'altra ragazza della via Pàl (itto), quasi in una sorta di cerchio ideale che forse così doveva chiudersi. Non so se qualche parte ci sia un superiore destino già scritto. Mi piace pensare di si, che non sia solo un caso, che le nostre esistenze non siano banali, che ci sia una sorta di invisibile filo di Arianna nelle nostre vite, trasparente ma immanente. In questo caso Marcello Maria porterà con le sue rappresentazioni un po’ di brio nell’azzurro del nostro al di la’ e strapperà un sorriso anche al serioso San Pietro, tra un caffè e l'altro. 
A me resta la nostalgia di quella chiamata "ciao Dr. Amici, come stai?", mentre dopo otto anni mi succede ancora oggi di alzare il telefono di casa per raccontare qualcosa a Mariarita: compongo lo 02 e solo allora mi ricordo, e riattacco. Dicono che il tempo cancella tutto, ma quanto dura questo tempo?
E se poi quel filo di Arianna non ci fosse? Se fosse tutto casuale, se la morte fosse assenza totale, né buio e né luce, quel buco nero senza fondo che risucchia ogni cosa e rende vano il nostro continuo aggrapparsi alle fate morgane dell'esistenza, allora che questo tempo duri nel tempo! Soltanto la memoria può sottrarci, come per magia, al ritmo travolgente del tempo ed ai suoi limiti mortali. Qualcuno ha già detto che solo chi viene dimenticato muore davvero. Anche in tal caso Marcello Maria non lo sarà: la tenerezza, l'amore di Elisa e Silvia sapranno fugare l'ombra dell'oblio. 
22 maggio 2016                                                                             




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