Peppino Marcantone
Vi voglio raccontare una storia che risale ormai a molti
anni fa quando ancora giovane medico, da poco specializzato in ortopedia,
diagnosticai alla mia zia Ivana, “svizzera”, un dito a scatto e le consigliai
il trattamento chirurgico.
Fu proprio allora che rimasi meravigliato nel sentire la
risposta della zietta: “ se non ti offendi prima di farmi operare preferirei
sottopormi ad un trattamento di api terapia presso un medico che esercita da
noi in Svizzera”.“ Certo che no ” le risposi io, non senza tradire un senso di
irriguardevole stupore.
Dopo solo due sedute la mano della zia guarì perfettamente.
Allora ero ancora un giovane medico bramoso di mettere in pratica le tante
nozioni acquisite negli anni di studio e nel reparto di chirurgia della mano
dove già da tempo lavoravo e dove lavoro tuttora; allora ero certo più incline
a colpire di bisturi piuttosto che non di pungiglione.
Non diedi peso a quella “strana” guarigione giudicandola più
frutto di un atto di “stregoneria” piuttosto che altro. La mia carriera di
medico è comunque proseguita felicemente senza che mi prendesse la paura di
poter perdere il lavoro per la “rivalità” di qualche puntura d’ape, ma senza
nemmeno poter prevedere che un giorno mi sarebbe mai potuta capitare la
grandissima fortuna di entrare con prepotenza in quello splendido e fantastico
mondo dell’apicoltura.
Da allora di anni ne son passati, molti capelli se ne son
purtroppo andati e per giunta quei pochi che son rimasti si sono pure
ingrigiti, la mia “bramosia” di “colpir di bisturi” si è nel tempo affievolita,
mentre si è andata via via accrescendo in me quella meravigliosa virtù che nei
più “adulti” viene chiamata saggezza.
Sarà forse stato proprio quel pizzico di saggezza in più a
riportarmi in mente la storia della mia zia Ivana e del suo dito a scatto,
curato con veleno d’api, ed a stuzzicare le mie voglie di approfondire
l’argomento.
Così iniziai a sfogliare riviste scientifiche che mi
aiutarono a scoprire che le conoscenze riguardo alle proprietà curative del
veleno d’api hanno origini lontanissime, il ritrovamento di alcuni manoscritti,
su papiro, attesta che già duemila anni or sono nell’antico Egitto si
praticasse lo “strofinamento” di veleno d’api su parti dolenti del corpo quale
rimedio al dolore stesso.
Nel succedersi degli anni trattamenti similari vennero poi
descritti da Plinio il Vecchio, Galeno, Carlo Magno, fino a che nel 1864 non fu
pubblicato il primo trattato relativo agli studi clinici eseguiti sull’impiego
del veleno d’api nel trattamento delle affezioni reumatiche.
Fu tuttavia soltanto ai primi del novecento che l’apiterapia
iniziò a diffondersi rapidamente in Europa ed in seguito anche in America.
Questa terapia che sembrava avere del “miracoloso” conobbe
però nel giro di qualche anno un inaspettato declino dovuto principalmente al
fatto che in essa furono riversate eccessive aspettative e che proprio a causa
di quest’ultime il trattamento veniva impiegato anche per patologie per le
quali non esisteva una corretta indicazione terapeutica vanificandone di fatto
l’efficacia.
Attualmente possiamo affermare che questa metodologia
terapeutica non può e non deve considerarsi come l’unica via percorribile per
il trattamento delle affezioni citate, ma va comunque considerata come una
buona integrazione ed un valido coadiuvante del trattamento classico di queste
malattie oppure come una importante alternativa in caso di fallimento delle
terapie convenzionali.
Il veleno è secreto dalle ghiandole caudali delle api
operaie ed è un liquido incolore con un forte odore caratteristico.
Per l’ottantacinque per cento è composto da acqua e per il
quindici per cento da sostanze secche farmacologicamente attive; tali sostanze
sono rappresentate da un insieme di enzimi, peptidi e proteine, zuccheri,
fosfolipidi ed alcune componenti volatili che ne determinano il caratteristico
odore. Fra tutte queste componenti troviamo:
1. sostanze a basso peso molecolare come istamina, dopamina,
norepinefrina, oligopeptidi, fosfolipidi, carboidrati e aminoacidi;
2. sostanze ad alto peso molecolare principalmente enzimi
quali le fosfolipasi, la ialuronidasi e la glicosidasi;
3. peptidi mellitina, apamina, peptide degranulante i
mastociti, secapina, tertiapina, procamina ed un inibitore delle proteasi.
Istamina, norepinefrina (sono sostanze vasoattive provocano
vasodilatazione con comparsa di rossore e calore ) e dopamina
(neurotrasmettitore ) sono presenti in grande quantità, anche se il 50%
dell’estratto secco è rappresentato dalla mellitina una sostanza in grado di
provocare la disgregazione delle membrane cellulari ( coadiuvata dall’azione
delle fosfolipasi enzimi che digeriscono i grassi presenti nelle membrane) con
conseguente liberazione, da parte delle cellule danneggiate, di sostanze come
l’istamina responsabili della insorgenza dello stimolo “infiammatorio –
doloroso”, della comparsa dell’edema ( gonfiore ), di un ulteriore aumento
dell’afflusso di sangue per vasodilatazione ( rossore e calore) mentre le
ialuronidasi “sciogliendo” il tessuto connettivale facilitano la diffusione del
veleno nello spazio intercellulare.
Altre sostanze proteiche presenti nel veleno hanno invece
un’azione antigenica ossia stimolano la produzione di anticorpi da parte del
sistema immunitario; il veleno d’api possiede anche un’ azione antinfiammatoria
da ricondurre alla mellitina, sostanza in grado, fra l’altro, di stimolare un
aumento della produzione del cortisolo endogeno ( cortisone ) ormone con forte
azione antinfiammatoria, ma anche in grado di produrre un aumento della
glicemia nel sangue, questo è il motivo per cui nel diabetico è controindicata
l’apiterapia; l’uso del veleno è inoltre controindicato in pazienti con
ipertensione arteriosa che assumono farmaci beta bloccanti; in pazienti con
insufficienza renale ed in pazienti cardiopatici gravi.
Oltre alla attività antinfiammatoria al veleno d’api vengono
riconosciute proprietà batteriostatiche ( blocca la crescita batterica),
battericide ( provoca la morte dei batteri ).
Le principali patologie che beneficiano positivamente del
trattamento con veleno d’api sono:
• patologie reumatiche: come l’artrite reumatoide, che sono
malattie sistemiche ( interessano l’intero organismo) e sono causate dalla
formazione di autoanticorpi, ossia anticorpi che aggrediscono componenti del
proprio organismo come tendini, cartilagini, tessuti sinoviali articolari od
organi interni;
• l’artrosi: (processo degenerativo a carico delle
cartilagini articolari ) delle grandi e piccole articolazioni;
• le tendiniti: infiammazioni dei tendini come per esempio
il dito a scatto o il gomito del tennista;
• lombalgia, cervicalgia: infiammazioni dell’apparato
“muscolare – tendineo” paravertebrale che possono insorgere a seguito di
un’artrosi della stessa colonna vertebrale, a traumi distorsivi ( per esempio
il colpo di frusta ) e/o a carichi di lavoro eccessivi eseguiti in posizioni
scorrette;
• neuropatie periferiche: per esempio la sindrome del canale
carpale;
• la sclerosi multipla: l’impiego dell’apiterapia per il
trattamento di questa patologia è ancora in fase di studio, pare tuttavia che
il trattamento prolungato produca benefici come la stabilizzazione della stessa
malattia, la sensazione di un minor senso di stanchezza a carico dell’ammalato
ed una relativa minor insorgenza di spasmi muscolari;
• cheloidi : ( cicatrici ispessite ed esuberanti )
l’iniezione di veleno d’api nel tessuto cicatriziale produce un
assottigliamento della cicatrice migliorandone anche l’aspetto estetico
attraverso la modificazione del colore discromico che spesso le caratterizza.
Esistono
sostanzialmente due metodologie attraverso le quali praticare l’apiterapia una
prevede l’utilizzo di una pinza chirurgica con la quale si preleva l’ape
portandola in prossimità del distretto corporeo in cui si desidera procurare l’inoculazione
del veleno ed appoggiando la “coda” alla cute si provoca la puntura da parte
dell’ape con la conseguente morte della stessa.
Personalmente, in quanto medico per vocazione ma apicoltore
per passione, ritengo che questa metodologia sia una pratica “ rozza e
barbarica “ non rispettosa della “dignità” dell’ape, inoltre con questa
metodica non è possibile dosare la corretta quantità di veleno, da intendersi
come quantità di sostanza farmacologicamente attiva, che si inietta nel
paziente;
infatti ogni puntura comporta la secrezione di una dose di
veleno molto variabile compresa fra 0,1 e 0,5 milligrammi.
La seconda metodologia prevede la preparazione di
“apitossina” direttamente in laboratorio;
si produce una lieve differenza di potenziale elettrico su
di una membrana sottilissima, introdotta nell’arnia, sulla quale si trovano le
api che vengono così indotte a rispondere con una puntura, la tossina secreta
passa attraverso la membrana e viene raccolta e successivamente trattata in
laboratorio, questa metodica non comporta il sacrificio dell’ape e permette di
preparare fiale contenenti una quantità di veleno liofilizzato perfettamente
dosata.
Il farmaco che se ne ricava viene poi somministrato con
iniezione praticata per via intradermica e/o sottocutanea direttamente sui “
trigger point” ( punti in cui è localizzato il dolore ) o in alcuni punti
utilizzati anche nella pratica dell’agopuntura.
Una volta iniettata la tossina produce reazioni che sono
variabili da individuo ad individuo e vanno da un forte dolore accompagnato da
rossore e calore con possibilità di comparsa di edema ( gonfiore ) localizzato
nella sede di inoculo e/o esteso a tutto l’arto fino alla comparsa di dolori
diffusi e generalizzati a tutte le articolazioni.
A tali sintomatologie si può anche associare un senso di
spossatezza, nausea e cefalea; questi “effetti collaterali” non comportano
comunque ne un ostacolo ne una controindicazione al trattamento.
Nei casi più gravi, fortunatamente estremamente rari, in
soggetti allergici ( si calcola una persona su centomila ) la somministrazione
dell’apitossina può provocare una importante reazione sistemica con comparsa di
shock anafilattico che se non trattato con urgenza e corretta competenza può
portare alla morte del paziente.
Questo è il motivo per cui è bene che la pratica
dell’apiterapia venga sempre e comunque esercitata da personale medico.
Concludendo la storia della zia Ivana possiamo affermare che
l’apiterapia è senz’altro da considerarsi una valida metodica sia di supporto
che in alternativa alle pratiche mediche convenzionali in uso per il
trattamento delle patologie sopra elencate, (qualora queste ultime si siano
rivelate inadeguate), purché esercitata con sapienza e buon equilibrio.
Il giusto equilibrio, nella pratica medica, è quello che
dobbiamo sempre ricercare per evitare che ad ogni nostra azione non ne segua
una uguale e contraria in grado di provocare effetti dannosi per la salute del
paziente;
il giusto equilibrio è quello che dobbiamo impegnarci a
ricercare nel dare la corretta indicazione all’utilizzo clinico dell’apiterapia
perché la stessa possa rivelarsi un utile risorsa nel trattamento medico senza
trasformarsi in una pratica di alta “stregoneria” in grado di provocare
benefici irrisori se non addirittura danni importanti al malato che abbiamo
deciso di sottoporre a questo tipo di cura.
Il giusto equilibrio, guarda caso, è anche quello che
dobbiamo sempre ricercare nello svolgimento della nostra pratica apistica,
perché ancora una volta le api ci insegnano che il nostro “benessere” non può
prescindere dal loro “benessere”.
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